Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha scelto di non prendere ancora una decisione definitiva sull’eventuale intervento militare a fianco di Israele contro l’Iran. La sua porta voce, Karoline Leavitt, ha comunicato giovedì pomeriggio, ora di Washington, che la risposta arriverà entro due settimane. Questo ritardo ha scatenato molte ipotesi sulle reali intenzioni di Washington, soprattutto sulle possibilità di una ripresa delle trattative diplomatiche o sulla strategia di Trump nel gestire la crisi.
Il significato vago delle due settimane di trump
Quando Trump parla di “due settimane”, non si tratta mai di una scadenza precisa. In passato ha usato questa frase per rimandare decisioni in diversi ambiti, senza mai rispettare rigorosamente il termine indicato. Ad esempio, il mese scorso aveva parlato di un possibile sviluppi nei negoziati sulla guerra in Ucraina, affermando che avrebbe capito in “una, due settimane” se Putin fosse realmente interessato alla pace. Quel termine è trascorso senza alcun aggiornamento concreto.
A volte chiama “due settimane” un periodo che serve solo a guadagnare tempo, come quando ha rimandato risposte sull’invio di aiuti a Kiev o sulla fiducia in Putin. Negli anni, questa formula è diventata una specie di strumento per spostare decisioni importanti senza assumersi impegni definitivi.
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In questo caso, la scelta di Trump di fissare una “scadenza” entro due settimane per decidere se intervenire militarmente contro l’Iran indica soprattutto una volontà di temporeggiare e tenere aperte varie opzioni. I tempi indicati non vanno intesi come vincolanti. L’assenza di una linea chiara mantiene Washington in posizione di attesa, osservando i movimenti regionali e diplomatici.
La possibile ripresa dei negoziati con l’iran
Una delle ragioni dietro il rinvio potrebbe essere il tentativo di proseguire o riattivare trattative diplomatiche con l’Iran. Prima dell’ultimo attacco israeliano, gli Stati Uniti avevano portato avanti colloqui da mesi, con il capo negoziatore Steve Witkoff che ha mantenuto contatti anche di recente con funzionari iraniani. Trump ha mostrato, nel corso del tempo, una preferenza per soluzioni che non sfocino in conflitti aperti, proprio per evitare problemi politici interni e destabilizzazioni rilevanti.
Però le condizioni poste dagli Stati Uniti restano rigide. Trump ha espressamente chiesto la “resa incondizionata” da parte di Teheran, una richiesta che il regime iraniano definisce inaccettabile anche se si trova in difficoltà su vari fronti. Dopo l’escalation militare e le bombe israeliane, l’Iran ha ribadito la sua indisponibilità a sedersi al tavolo finché continueranno i raid.
Questo stallo rende i negoziati complicati. Ma l’annuncio di Trump lascia aperta una porta: potrebbe voler aspettare di capire se le tensioni si attenuano o se si delineano nuove opportunità diplomatiche. La speranza di evitare una guerra aperta spinge gli Usa a monitorare l’evolversi della situazione prima di passare a una fase più dura.
La strategia di lasciare agire israele e rafforzare le difese
Il rinvio della decisione americana allo stesso tempo dà a Israele il tempo di portare avanti la sua campagna di bombardamenti contro obiettivi iraniani, soprattutto sulle difese aeree. Gli attacchi israeliani stanno mirando a ridurre le capacità di ritorsione di Teheran e a indebolire i siti sensibili, preparandosi a uno scenario peggiore.
Le due settimane servono anche agli Stati Uniti per spostare mezzi militari e rafforzare la presenza nell’area. Già da giorni navi da guerra e aerei statunitensi stanno convergendo verso il Medio Oriente. L’arrivo di una seconda portaerei, oltre quella già schierata, permetterebbe a Washington di rispondere in modo più efficace a eventuali contrattacchi iraniani.
Questo concentramento di forze aumenta la capacità di pressione statunitense sulla regione e offre margini maggiori per un eventuale attacco dagli Usa, qualora Trump decidesse di muoversi in quella direzione. La prudenza dei tempi quindi potrebbe tradursi in un vantaggio tattico per gli alleati israeliani e per gli interessi americani.
Il possibile bluff per confondere l’iran
Un’altra ipotesi che circola riguarda un possibile bluff coordinato tra Washington e Tel Aviv. Secondo James Stavridis, ex ammiraglio della marina Usa, la dichiarazione di Trump potrebbe simulare una pausa tattica, utile a far abbassare la guardia a Teheran.
Il sospetto è che l’apparente ritardo nasconda in realtà la preparazione per un attacco immediato, cavalcando l’effetto sorpresa. Già nelle scorse settimane alcuni analisti, soprattutto vicini a Israele, avevano ipotizzato che l’avvio dei negoziati fosse solo una mossa per indurre l’Iran a fidarsi in modo errato prima degli attacchi.
Tuttavia, questa versione ha incontrato molte smentite da reportage che raccontano come i colloqui siano stati condotti con reali intenti negoziali. Difficile stabilire il vero gioco di Washington ma tutto lascia intendere che ci sia una strategia complessa, fatta di segnali non univoci per mantenere una posizione di forza.
Il tentativo di trump di riconquistare il controllo della crisi
La decisione di rimandare ha anche un valore interno alla dinamica politica americana. Finora Trump è stato costretto a seguire l’iniziativa di Netanyahu, che ha scelto momenti e modi degli attacchi a proprio vantaggio.
Rinviando la decisione, Trump recupera margini di manovra. Controllare i tempi significa poter decidere in modo più autonomo se e quando gli Stati Uniti entreranno in campo, invece di farsi tirare per la giacca da Israele o dallo scacchiere mediorientale.
In questo modo la Casa Bianca prova a ristabilire un certo equilibrio nel gioco politico internazionale, evitando scelte frettolose e reagendo con più calma agli sviluppi. La crisi non si esaurirà nelle prossime ore e l’attesa potrebbe allargare il raggio di azione e di opzioni per Washington.