Il 6 maggio 1976 una violenta scossa di terremoto colpì la fascia pedemontana a nord di Udine, sconvolgendo vite e paesi del Friuli. Quella sera, alle 21 precise, un fenomeno naturale distruttivo segnò profondamente la memoria collettiva della regione. Da allora sono passati quasi cinquant’anni, ma il ricordo di quel sisma resta vivido e carico di significato. La devastazione, l’impatto sulle comunità e la solidarietà emersa in quei giorni, oltre alla rinascita costruita dopo, hanno lasciato un’eredità che ancora oggi informa la cultura e l’identità friulana. Nel 2025, a quasi mezzo secolo di distanza, l’evento continua a essere celebrato con cerimonie e iniziative dedicate.
Il terremoto del 6 maggio 1976 e l’impatto sulla fascia pedemontana friulana
Alle 21 del 6 maggio 1976 una scossa di magnitudo 6.4 colpì la zona a nord di Udine, interessando in particolare le località di Gemona, Venzone, Osoppo e Majano, tra decine di comuni gravemente danneggiati. In meno di un minuto il terreno tremò con violenza, provocando crolli diffusi e ferite profonde nelle strutture abitative e nei luoghi pubblici. La conta finale delle vittime sfiorò le mille persone, con oltre 3.000 feriti. Gemona, il centro più colpito, vide una distruzione quasi totale e pagò un prezzo molto alto con circa 400 morti. La forza del sisma mandò in frantumi il tessuto sociale e fisico di un territorio che, solo pochi mesi dopo, sarebbe stato nuovamente scosso il 15 settembre 1976 da una replica di magnitudo 5.9. Questa seconda scossa aggravò le condizioni già critiche, causando ulteriori lesionamenti e perdite.
Evacuazioni e conseguenze immediate
Il terremoto colpì un’area vasta, includendo province di Udine e Pordenone, devastando oltre un centinaio di paesi e lasciando dietro di sé un paesaggio di macerie e dolore. L’intensità del terremoto e la durata delle repliche non permisero alle popolazioni di risollevarsi facilmente. Il numero di danni materiali e umani rese evidente la necessità di un intervento rapido e coordinato, in grado di fronteggiare l’emergenza e avviare un percorso di ricostruzione.
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Il significato culturale della tragedia e il ricordo dell’orcolat
Nella cultura friulana, l’evento del ’76 è legato alla leggenda dell’orcolat, parola che deriva da “orco“, un essere mostruoso ritenuto responsabile dei terremoti secondo il folclore locale. Questa narrazione tradizionale ha mantenuto intatto il senso di mistero e paura che la scossa ha suscitato nelle comunità colpite. Oggi, a distanza di decenni, il ricordo dell’orcolat continua a rappresentare un richiamo simbolico potente. Le commemorazioni avvengono sempre il 6 maggio, quando alle 21 in molti paesi friulani le campane suonano per un minuto, segnando un momento di silenzio e riflessione. Questo gesto unisce le persone nella memoria di chi ha perso la vita o ha subito lutti e danni.
Commemorazioni a vendoglio
A Vendoglio, nella chiesa di San Michele, si celebra una messa solenne che raduna familiari, testimoni e cittadini per onorare le vittime e rafforzare il senso di comunità. La tradizione mantiene viva la memoria, evitando che i fatti vengano dimenticati. In tempi in cui i ricordi storici spesso si affievoliscono, questi riti conservano la dimensione emotiva di un evento traumatico, restituendolo alle nuove generazioni.
La solidarietà nazionale e internazionale che sostenne il friuli dopo il terremoto
Dietro alla distruzione e al lutto, si mosse subito una vasta rete di aiuti che coinvolse tutta Italia e numerosi paesi esteri. Le prime ore e i giorni successivi al terremoto videro arrivare volontari, fondi, medicine e materiali provenienti da ogni parte, rispondendo alla necessità urgente di soccorrere feriti e sfollati. Sindaci e parroci delle comunità locali divennero punti di riferimento per incanalare il sostegno e coordinare le operazioni di soccorso sui territori più colpiti.
Fu in questa fase emergenziale che emerse la figura di Giuseppe Zamberletti, nominato commissario straordinario per la ricostruzione. La sua azione rigorosa e pragmatica pose le basi per dare forma a un modello operativo di protezione civile che, partendo dall’esperienza friulana, si estese poi a livello nazionale. Questo sistema cercò di unire interventi immediati a una governance solida, prestando attenzione sia alla sicurezza delle persone sia alla rapida ricostruzione delle infrastrutture danneggiate.
L’aiuto internazionale, dalle nazioni europee ma anche oltre, contribuì a velocizzare il recupero, spesso mettendo a disposizione attrezzature specializzate e competenze tecniche. Molti gruppi di volontariato si mobilitarono, alimentando un senso di collaborazione intensa e concreta. Quel periodo segnò un momento di unione non solo fra le istituzioni, ma anche fra le popolazioni coinvolte.
La ricostruzione del friuli e il modello che venne seguito
La ricostruzione del Friuli dopo il terremoto si caratterizzò per la partecipazione attiva delle comunità locali, che furono coinvolte non solo nell’aprire cantieri ma anche nella definizione dei nuovi progetti urbani. L’obiettivo non era solo risollevare le città distrutte, ma permettere una rinascita che rispettasse la storia e la cultura del territorio, senza lasciarsi schiacciare dal trauma. Si realizzò così un equilibrio tra memoria e rinnovamento.
Il modello friuli
Il cosiddetto “modello Friuli” rappresentò una strada diversa rispetto ad altri interventi post-disastro, grazie al dialogo fra tecnici, abitanti e amministratori. I saggi furono ascoltati ed emerse un impegno per ricostruire gli edifici secondo standard migliori, con una particolare attenzione alla sicurezza antisismica. Questa esperienza contribuì a creare competenze e procedure che oggi fanno parte del bagaglio della protezione civile italiana.
Venzone, uno dei centri più colpiti, è diventato un simbolo di questo processo. Qui, una mostra intitolata “Passato/Presente” raccoglie fotografie, documenti e testimonianze orali di quella stagione. Lo spazio espositivo vuole essere un punto di incontro fra chi ha vissuto il terremoto e le nuove generazioni, affinché il vissuto diretto non si perda nel tempo. La mostra si propone come strumento per mantenere vivo quel ricordo e per insegnare che la sofferenza si può trasformare in ricostruzione sociale e culturale.