L’amministrazione di donald trump ha adottato una linea diplomatica improntata all’equidistanza fra i contendenti di vari conflitti internazionali, mirando a una pace o a una cessazione delle ostilità rapida. Questo metodo, però, ha suscitato crescenti tensioni tra gli alleati storici degli Stati Uniti e ha mostrato limiti evidenti, come dimostra il caso dell’operazione militare contro gli houthi in Yemen. Le scelte di equilibratione tra le parti, senza privilegiare nettamente chi ha subito aggressioni, hanno prodotto risultati controversi negli ultimi anni.
Il ruolo degli alleati americani sotto la presidenza trump
L’approccio di trump ha segnato uno scollamento importante con gli alleati tradizionali, europei e non solo. I paesi europei hanno visto un ridimensionamento delle relazioni economiche e militari, insieme a un distacco crescente sui valori liberali condivisi in passato. L’ucraina è stata protagonista di uno degli episodi più problematici, durante l’incontro nello studio ovale con il presidente zelensky, in cui l’atteggiamento americano ha generato amarezza e diffidenza.
Tensioni in medioriente e asia
Israele ha risentito in modo particolare di questa politica, esclusa da molti negoziati documentati dall’amministrazione trump riguardanti la regione medio-orientale. Le comunicazioni con il premier benjamin netanyahu hanno perso continuità e chiarezza. Anche l’india si è trovata a dover accettare intese con il pakistan mal elaborate, peggiorando il già difficile rapporto tra le due nazioni. Canada e Danimarca sono altri esempi di partner che hanno vissuto un rapporto più freddo e meno solidale con gli Stati Uniti.
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Questo clima ha reso più complesso immaginare un fronte occidentale compatto. Donald trump, infatti, ha voluto mettere tutti i paesi sullo stesso piano nei contrasti, senza premiare apertamente chi subisce invasione o terrorismo. L’obiettivo dichiarato era chiudere rapidamente i conflitti, ma la strategia non ha evitato il malcontento negli ambienti diplomatici.
L’equidistanza americana tra russia e ucraina, india e pakistan
Lo stile negoziale di trump ha avuto un impatto evidente nei conflitti più delicati. Nel caso dell’invasione russa in ucraina, la sua amministrazione ha evitato di considerare mosca come l’unica responsabile, preferendo posizionare russia e ucraina su un piano di parità. Questa modalità di banda equidistante è stata ripetuta nel confronto tra india e pakistan, dove l’amministrazione ha invitato entrambi i paesi a cessare le ostilità senza differenziare le colpe o le ragioni dei conflitti.
Questa posizione ha complicato il sostegno alle nazioni aggredite, riducendo il coinvolgimento diretto e l’appoggio diplomatico. Israele ha vissuto in modo ancora più accentuato questa tendenza nella sua relazione con gli Stati Uniti degli ultimi anni di trump, specie nel modo in cui l’amministrazione ha negoziato con iran. I negoziati con teheran sono stati condotti senza consultare adeguatamente tel aviv, lasciando al paese israeliano rischi e incertezze sulla propria sicurezza.
L’allineamento con le parti nemiche degli alleati ha generato diffidenza e preoccupazione nella regione mediorientale. Israele resta uno degli stati più esposti a minacce legate alle politiche troppo bilanciate e poco schierate degli Stati Uniti.
Il caso degli houthi: una “vittoria” ambigua per l’amministrazione americana
La campagna militare contro gli houthi yemeniti rappresenta il punto più rivelatore dell’approccio trumpiano al conflitto. Il new york times ha ricostruito dettagliatamente le fasi di questa operazione, evidenziando diverse difficoltà e costi elevati. Due mesi orsono, l’amministrazione ha ordinato una serie di attacchi contro gli houthi, gruppo terrorista sostenuto dall’iran e responsabile di attacchi navali nel mar rosso e minacce verso israele.
Il presidente trump aveva chiesto risultati visibili entro 30 giorni dal primo bombardamento. Al termine di quel periodo, i risultati non erano visibili. Gli Stati Uniti non avevano ristabilito una superiorità aerea efficace e avevano perso risorse importanti: un miliardo di dollari è stato speso in armi e munizioni, con due cacciabombardieri super hornet finiti accidentalmente in mare da una portaerei. L’operazione ha perso slancio e nel frattempo gli houthi hanno continuato a lanciare droni e missili, inclusi sette mq-9 abbattuti dal nemico.
A quel punto trump ha chiesto al suo inviato in oman, steve witkoff, di proporre una tregua che prevedeva la sospensione degli attacchi americani e la fine degli attacchi houthi contro obiettivi statunitensi nel mar rosso. La condizione però imponeva che gli houthi potessero continuare i loro attacchi verso obiettivi legati a israele, senza perdere questa facoltà. Così, il 5 maggio le operazioni americane contro gli houthi sono state ufficialmente sospese.
Reazioni militari e politici all’operazione in yemen
Il generale michael kurilla, a capo del central command, aveva presentato un piano per una campagna di dieci mesi contro gli houthi con il sostegno dell’arabia saudita, che aveva indicato dodici leader da colpire. Gli emirati arabi uniti però non hanno appoggiato questa strategia. La riduzione del tempo a soli trenta giorni ha compromesso il piano, che si è rivelato disastroso per l’esercito americano.
Nel corso degli attacchi sono stati colpiti oltre mille obiettivi strategici, molti dei quali capi houthi, ma l’impatto non è stato efficace nel fermare il gruppo. Alla resa dei conti, l’operazione ha rappresentato un enorme costo economico e militare, con una perdita significativa di droni e velivoli. In seno all’amministrazione si sono fatti avanti personaggi scettici come il vicepresidente j.d. vance e l’ex deputata tulsi gabbard, la cui influenza si è fatta sentire.
Nel frattempo, gli houthi hanno proclamato la loro “vittoria”. Il giorno prima della sospensione, il 4 maggio, un missile balistico lanciato da loro ha colpito vicino all’aeroporto ben gurion di tel aviv, riuscendo a eludere le difese israeliane. Gli houthi hanno lanciato una massiccia campagna social sotto l’hashtag #yemendefeatsamerica, sottolineando il loro successo.
Israele ha visto crollare la propria certezza di sicurezza, cosa che si riflette anche in una generale insicurezza degli alleati americani. L’esperienza della cosiddetta “vittoria” mette in evidenza i limiti di un equilibrio diplomatico che non distingue bene tra attaccanti e attaccati. A quel punto, gli interlocutori americani sembrano meno affidabili e gli equilibri regionali diventano più fragili.