L’interesse degli inglesi per roma si è spesso sviluppato in un rapporto complesso, segnato dalla fascinazione per le rovine antiche e da una percezione distante e a tratti critica della città vissuta come enigmatica. Dalla Piramide Cestia a piazza di Spagna, l’esperienza british nella capitale italiana ha avuto contorni ben definiti leggibili tra decadenza estetica e un’idea della città come un luogo a sé, difficile da penetrare pienamente.
La separazione fisica e simbolica tra cimitero acattolico e trastevere
A roma la strada di via Marmorata corre tra la piramide Cestia e il tevere, un confine che ha segnato anche il limite tra due universi percepiti molto diversamente dagli inglesi. Da un lato, il cimitero acattolico, anticamente detto cimitero degli inglesi, dove riposano figure chiave del panorama britannico come Keats; dall’altro Trastevere, quartiere popolare e pieno di vita ma temuto e guardato con sospetto dai visitatori anglosassoni.
Già nell’Ottocento Trastevere era visto con diffidenza per la sua insalubrità e per la vicinanza al Tevere, che contribuiva a un clima malsano di umidità e zanzare, ma anche perché il rione aveva una reputazione negativa dettata dalla densità abitativa e da una vita vissuta in condizioni difficili. Gli scrittori francesi, tra cui i fratelli Goncourt, raccontarono un quartiere oscuro, dove si intrecciavano aspetti noir e atmosfere cupe, come nel romanzo “Madame Gervaisais”.
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La visione di hippolyte taine su trastevere
Per alcuni intellettuali come Hippolyte Taine la realtà di Trastevere risultava quasi tragica e incomunicabile: nelle sue pagine è descritta come un caos indomabile da rappresentare, fatta eccezione per le strade “orribili e fetide”. Gli inglesi, più distanti in termini sociali e culturali, preferirono evitare quegli ambienti difficili e si stabilirono in zone più selezionate del centro, cercando di mantenersi separate da quei quartieri popolari.
Il ghetto degli inglesi tra piazza di spagna e piazza del popolo
La scelta abitativa degli inglesi a roma ricadde sul triangolo che comprende piazza di Spagna, piazza del Popolo e via Sistina. Il quartiere emerse come un’area di concentrazione della comunità britannica, tanto da essere soprannominato il “ghetto degli inglesi”. Qui gli inglesi si raccolsero creando una micro-comunità che rifletteva i gusti e le sensazioni tipiche del loro approccio al paesaggio urbano.
Gli osservatori britannici posero una lente particolare su roma, che incorniciarono nel concetto di “pittoresco”. Nato in Inghilterra e approfondito da critici come Edmund Burke, questo stile esplora un tipo di bellezza legata a un disordine affascinante e romantico. Le rovine antiche e i paesaggi urbani degradati assumevano così un valore estetico, capace di unire decadenza e grazia in un’unica immagine.
Roma come una città sospesa tra passato e presente
Roma incarnò questa idea in modo pregnante per gli inglesi, una città sospesa tra gloria antica e segni di cedimento, un luogo dove il passato si mescolava violentemente con la realtà contemporanea. Oltre ai rimandi storici, la capitale si presentava come una “scatola chiusa”, una città da ammirare senza poterla mai comprendere fino in fondo, disagio che portò molti scrittori britannici a preferire altre mete italiane come Firenze.
Le descrizioni di john ruskin e l’estetica del decadente a roma
Le impressioni di John Ruskin su roma offrono un quadro dettagliato del rapporto inglese con la città. Ruskin mostrava roma come una tavolozza d’emozioni forti, tra contrasti luminosi e ombre soffuse, in cui anche le miserie trovavano un proprio spazio estetico. Ogni aspetto della capitale, dai palazzi nobiliari fino agli angoli più disordinati, veniva colto in tutta la sua complessità visiva e simbolica.
La centralità del cattolicesimo e delle sue manifestazioni religiose spesso irritava le sensibilità degli intellettuali inglesi, abituati a un protestantesimo più sobrio. Le chiese ricche di ori e immagini mostravano un mondo diverso, quasi estraneo, per molti scrittori britannici. Tra i romantici, come Shelley o Keats, si trovava invece una forma di fascinazione che si legava all’immaginario piuttosto che alla realtà oggettiva.
Shelley in particolare trasse dal Colosseo un’immagine forte: non contava tanto lo stato conservativo, quanto il senso di rovina che il sito evocava, carico di storia e memoria. La pietà per il passato superava l’interesse per la semplice bellezza architettonica. Questa visione ha segnato la letteratura inglese fino a epoche più tarde, con scrittori incapaci di vedere roma come luogo vivo, piuttosto che come una rappresentazione del tempo che passa.
L’interesse degli inglesi per roma resta ancora oggi una testimonianza di un modo particolare di leggere la città, attraverso il filtro del passato straordinario e di una realtà urbana percepita con distacco e fascino contrastante.