Donald Trump si muove su un terreno politico complesso. Pur mantenendo un livello di consenso sotto il 40%, il suo potere non mostra cedimenti significativi. Storicamente, un presidente con questa popolarità avrebbe subito un logoramento su vasta scala o perso consistenza politica. Quest’anno però la sua influenza si conferma solida, grazie a un sostegno interno e a un sistema istituzionale che continua a farlo emergere nonostante i dati negativi delle rilevazioni d’opinione.
Il ruolo determinante del partito repubblicano nella tenuta di trump
Il cuore della resilienza politica di Trump si trova nel Partito repubblicano. La maggioranza della base elettorale, circa il 90%, si mostra ferma nel sostenerlo, ignorando i dati impietosi degli istituti di sondaggio. I dirigenti repubblicani hanno lasciato da parte ogni autonomia di giudizio e strategia, allineandosi con le scelte e la linea voluta dal leader. Questo riconoscimento di un controllo quasi assoluto da parte di Trump sul partito permette di spiegare come la sua agenda continui a imporsi con forza sulla scena politica nazionale.
In questo quadro, ogni tentativo interno di sviluppare una posizione autonoma viene messo da parte. Il partito appare coeso attorno al presidente, in modo tale che le decisioni e le priorità politiche coincidano principalmente con la sua visione e volontà. Queste dinamiche consentono a Trump di mantenere un potere che la soglia bassa dei sondaggi non lascia intuire, trasformando il consenso minoritario in un blocco politico compatto e difficilmente scalfibile.
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L’incertezza e la divisione tra i democratici frenano l’opposizione a trump
Mentre Trump si mantiene saldo nella sua posizione, l’opposizione democratica appare meno definita nel suo approccio. I capigruppo al Congresso, Hakeem Jeffries e Chuck Schumer, vivono una tensione interna tra posizioni più moderate, volte a difendere le istituzioni, e correnti che chiedono una linea più dura contro quello che definiscono un autoritarismo in crescita. Questa divisione si traduce spesso in un atteggiamento oscillante, con dichiarazioni poco decise o, talvolta, in silenzi giudicati imbarazzanti.
Un esempio di questa ambiguità è emerso dopo le primarie del sindaco di New York, dove la leadership democratica ha esitato a sostenere apertamente il candidato socialista vincente, Zohran Mamdani. La percezione generale è quella di un partito paralizzato, che invoca unità ma che nella pratica fatica a presentarsi con una posizione netta e coerente. Gli attivisti chiedono una resistenza diretta e dura, mentre i leader preferiscono un linguaggio prudente o lettere di protesta che non sembrano ottenere risultati concreti contro un avversario imprevedibile come Trump.
Trump ridefinisce la cornice del confronto politico nazionale
L’elemento chiave del successo di Trump è la capacità di spostare il dibattito pubblico su un terreno nuovo. Non si tratta più di discutere singoli provvedimenti o politiche specifiche, ma di collocare la contesa entro uno scontro esistenziale tra due mondi opposti: da un lato “il popolo tradito” e dall’altro “le élite corrotte”. Questa cornice ha trasformato ogni confronto politico in un’aspra battaglia culturale e identitaria.
Di fronte a questa impostazione la comunicazione democratica, focalizzata su temi come Medicaid o norme parlamentari, riesce solo in parte a imporsi perché resta incastrata nella cornice tracciata da Trump. Ogni tentativo di approfondire argomenti concreti viene superato dal racconto dominante che parla di ordine contro caos o forza contro debolezza. Senza una strategia che rilanci il dibattito politico su un terreno diverso, i democratici faticano a guadagnare spazio e a incidere sull’agenda politica.
Le battaglie legali come unica risposta concreta alle mosse della casa bianca
Gli sforzi maggiori contro Trump arrivano dal fronte giudiziario, dove l’opposizione ha ottenuto alcuni risultati tangibili. Secondo l’Atlantic, centinaia di cause sono state avviate contro decisioni della Casa Bianca. Nei primi sette mesi di mandato, più di 380 ricorsi si sono rivolti contro l’amministrazione, con circa 130 ordinanze giudiziarie che hanno ostacolato o modificato almeno in parte le iniziative presidenziali.
Ad esempio, diverse sentenze hanno bloccato piani di deportazione di massa o la sospensione di programmi destinati a studenti stranieri. Alcune pronunce hanno obbligato il governo a rimborsare fondi a enti come AmeriCorps o a fermare licenziamenti nel Dipartimento dell’Istruzione. Perfino le misure sui dazi economici hanno subito battute d’arresto, con una corte d’appello che ha dichiarato illegittime le tariffe, aprendo la strada a un possibile intervento della Corte Suprema.
Nonostante queste vittorie non siano definitive, dato che spesso vengono ribaltate in appello o dai supremi giudici, il ricorso al sistema giudiziario ha rallentato alcune mosse di Trump, costringendo la Casa Bianca a maggiore trasparenza e ostacolando certe politiche. Questa opposizione legale rappresenta un freno parziale ma reale al potere presidenziale.
La lentezza dei procedimenti giudiziari favorisce la strategia politica di trump
Il sistema giudiziario rallenta le iniziative presidenziali, ma questa tempistica si traduce in un vantaggio per Trump. Il presidente sfrutta infatti i tempi lunghi dei processi per mantenere la pressione politica e attuare comunque le sue strategie. Un esempio è l’intervento militare a Los Angeles nel giugno scorso: la Corte Suprema deve ancora pronunciarsi, ma Trump ha già annunciato l’intenzione di replicare l’azione a Chicago.
Lo stesso schema si riscontra per i dazi economici, dove i limiti imposti dai giudici sono apparsi più temporanei che definitivi, lasciando spazio alla Casa Bianca per riformulare le misure con nuovi argomenti legali. Secondo l’Economist, Trump ha adottato questa tattica con tempismo rapido, che gli permette di spostare efficacemente l’attenzione politica prima che l’opposizione riesca a rispondere.
Un ulteriore effetto di questa strategia si osserva nel comportamento di università, studi legali, aziende e media, che scelgono spesso di evitare scontri diretti con l’amministrazione, per non rischiare perdite economiche o rapporti istituzionali. La somma di queste scelte crea una situazione di stallo e rassegnazione, dove la resistenza a Trump si frena di fronte ai costi di una opposizione aperta.
La manipolazione delle mappe elettorali rafforza il potere repubblicano nonostante l’impopolarità
Oltre alle dinamiche politiche e giudiziarie, la geografia elettorale è stata modificata per consolidare la posizione dei repubblicani. Nel 2024 e nei mesi recenti, più stati, su iniziativa diretta della Casa Bianca o di suoi alleati, hanno approvato o stanno discutendo nuove mappe elettorali, che modificano profondamente l’equilibrio dei seggi parlamentari.
In Texas, ad esempio, il governatore Greg Abbott ha firmato un ridisegno dei distretti che potrebbe portare cinque seggi supplementari ai repubblicani. In Missouri, una sessione straordinaria mira a smembrare la forte presenza democratica di Kansas City, diluendo il voto urbano nei distretti rurali. Indiana sta discutendo un piano simile dopo incontri con Trump e il vicepresidente J.D. Vance.
Come contrappeso, la California ha lanciato un referendum per tentare di ridisegnare i confini in modo favorevole ai democratici, ma la proposta dovrà passare un voto popolare a novembre. Decisioni giudiziarie imminenti in Louisiana e Ohio potrebbero aprire nuove possibilità di manipolazione elettorale. Questi cambiamenti rendono più difficile tradurre l’impopolarità di Trump in una perdita di seggi parlamentari per i repubblicani.
La storia americana insegna che l’impopolarità di trump potrebbe tradursi in una sconfitta alle elezioni di metà mandato
Il passato degli Stati Uniti mostra come presidenti con bassi consensi abbiano pagato un prezzo pesante nelle elezioni di midterm, quando gli elettori tendono a riequilibrare il potere tra esecutivo e Congresso. Harry Truman, dopo un tracollo nel 1946, riuscì a recuperare con un tour in treno che lo rilanciò politicamente. Bill Clinton perse la maggioranza nel 1994 ma vinse la rielezione nel ’96 con una campagna focalizzata sulla crescita economica.
Dall’altra parte ci sono casi in cui l’impopolarità ha portato a una fine politica più definitiva: Jimmy Carter perse nel 1980 per la crisi economica e degli ostaggi in Iran, George H. W. Bush non superò la recessione e un candidato terzo. Questi episodi indicano che sebbene la prima parte del mandato sia difficile, esiste il rischio di una sconfitta alle elezioni di metà termine per chi raccoglie poco consenso.
La polarizzazione e il gerrymandering stanno ridisegnando le regole della democrazia americana
L’eccezione Trump potrebbe rappresentare una frattura rispetto a questa tradizione elettorale. Oggi, il voto è radicato in blocchi molto solidi e poco permeabili, con una divisione netta lungo linee culturali e tribali. Grazie a distretti elettorali disegnati per minimizzare la competizione, il calo di popolarità non si trasforma quasi mai in una diminuzione automatica del potere parlamentare.
Trump governa mantenendo un consenso di circa il 37-38%, ma sufficientemente stabile e protetto da un sistema politico che non consente cambiamenti immediati. In questo contesto, il presidente continua a dominare il confronto politico mentre l’opposizione fatica a trovare nuove chiavi per riorganizzare la sfida e scardinare questa situazione apparentemente immutabile.