Riduzione della rivalutazione delle pensioni oltre i 2500 euro lordi: impatto sui pensionati italiani e perdite a lungo termine

Riduzione Della Rivalutazione

Taglio della rivalutazione pensioni sopra 2500 euro: effetti e perdite future - Gaeta.it

Elisabetta Cina

17 Settembre 2025

La riduzione della rivalutazione per le pensioni sopra i 2.500 euro lordi al mese sta causando perdite consistenti per un ampio gruppo di pensionati italiani. Un terzo di questi redditi, pari a circa 3,5 milioni di persone, affronta una decurtazione che si estenderà nei prossimi dieci anni, con effetti più marcati al crescere dell’assegno. L’impatto economico di queste misure emerge da un recente studio sull’andamento della spesa pensionistica italiana, evidenziando come le pensioni più alte abbiano subito una significativa erosione del potere d’acquisto per un insieme di fattori legati a meccanismi normativi e all’inflazione degli ultimi anni.

I numeri della perdita di valore per pensionati con assegni alti

Secondo l’analisi presentata a Roma da Itinerari Previdenziali e Cida, la crescita delle pensioni sopra i 2.500 euro lordi è stata ostacolata da una rivalutazione ridotta che nelle prossime due legislature porterà a una perdita minima di 13 mila euro pro capite nel decennio successivo. Tale valore è destinato a crescere con l’aumentare degli importi percepiti: chi prende assegni oltre i 10 mila euro lordi mensili, pari circa a 6 mila euro netti, si troverà davanti a una perdita complessiva superiore ai 115 mila euro. I pensionati intaccati da questa riduzione sono circa 3,5 milioni, pari al 21,9% della platea complessiva, con redditi oltre quattro volte il trattamento minimo di 616,67 euro attualmente in vigore.

Questa fascia contribuisce attivamente al sistema fiscale, sostenendo il 62% della tassazione Irpef sulle pensioni. In effetti i pensionati con redditi elevati hanno sempre versato da contributi per gran parte della loro vita lavorativa, ma si trovano oggi a sostenere una decurtazione del potere d’acquisto che si riflette sulle loro entrate future. Lo studio evidenzia come la misura adottata dal governo Meloni nel 2024 per il triennio abbia accresciuto questo fenomeno, soprattutto a causa dell’elevata inflazione sperimentata fra il 2023 e il 2024. La mancanza di un adeguamento pieno degli assegni più alti ha scatenato critiche circa la possibile incostituzionalità della mancata rivalutazione soprattutto sugli importi calcolati con il metodo contributivo, dove la rivalutazione piena dovrebbe essere garantita.

Il deterioramento del potere d’acquisto delle pensioni medio-alte negli ultimi trent’anni

Stefano Cuzzilla, presidente di Cida, ha sottolineato come in 30 anni le pensioni medio-alte abbiano perso più di un quarto del loro potere d’acquisto. Questo fenomeno rappresenta una frattura nel sistema previdenziale, dove chi ha versato contributi più alti vede eroso il risultato del proprio lavoro e delle tasse pagate. Cuzzilla ricorda che le pensioni non sono privilegi, ma salario differito, una retribuzione differita di anni di lavoro e impegno fiscale. Inoltre le pensioni costituiscono un patto fra generazioni: chi lavora oggi sostiene chi ha lavorato ieri e si aspetta un trattamento analogo domani.

La disparità risulta evidente considerando che poco meno di 1,8 milioni di pensionati con redditi superiori a 35 mila euro all’anno , coprono da soli il 46,33% dell’Irpef generata sui pensionati. Proprio loro sono i più penalizzati dalla mancata rivalutazione, mentre i pensionati con assegni bassi o privi di contributi versati hanno mantenuto, o addirittura migliorato, il valore reale della loro pensione contro l’inflazione. Questo capovolgimento del principio di equità solleva interrogativi sulla distribuzione della solidarietà fiscale, dato che la pressione ricade stabilmente sui contribuenti più “fedeli” mentre chi evade resta al di fuori dei controlli più severi.

Gli effetti delle regole di perequazione e la perdita permanente di reddito

Alberto Brambilla, presidente del centro studi Itinerari Previdenziali, spiega che la riduzione della rivalutazione tra 2023 e 2024 è stata applicata sull’intero importo pensionistico anziché solo sulle quote eccedenti determinati livelli. Nel 2023 ad esempio un pensionato con una rendita fra 2.627 e 3.152 euro ha visto rivalutare l’intera pensione solo del 4,3%, mentre il tasso di inflazione definitivo ha superato l’8%. Per il 2025 si è tornati a un sistema a scaglioni: l’inflazione provvisoria dello 0,8% verrà applicata al 100% fino a 4 volte il trattamento minimo, al 90% fra 4 e 5 volte e al 75% oltre le 5 volte.

Questa correzione non compensa però le perdite accumulate nei due anni precedenti. La pubblicazione infatti parla di una riduzione permanente del reddito pensionistico destinata a trascinarsi oltre il 2025. Dal 2012 al 2022, i trattamenti sopra 10 volte il minimo hanno subìto una perdita di circa 9 punti percentuali rispetto a un’inflazione totale dell’11,6%. Il periodo dal 2023 al 2025 ha innalzato questa riduzione a circa il 12% a causa dell’inflazione elevata e delle regole di anno fiscale introdotte recentemente: complessivamente, la svalutazione supera il 21% in circa 14 anni.

Per concretizzare si evidenzia che una pensione da 10 mila euro lordi mensili nel periodo ha perso quasi 178 mila euro in potere d’acquisto, mentre un assegno da 5.500 euro lordi ha visto riduzioni per circa 96 mila euro. Brambilla sottolinea come questa dinamica si traduce in un’ulteriore sottrazione di 45 miliardi di euro ai pensionati appartenenti al cosiddetto “ceto medio”, che già affrontano la responsabilità del versamento di circa 56 miliardi di Irpef da pensioni. Questa combinazione di impatti conferma la scala e la persistenza delle perdite economiche per fasce di reddito medio-alte nel sistema pensionistico italiano attuale.