Le disuguaglianze nelle città e le risposte di comunità a roma e in altre metropoli italiane

Le disuguaglianze nelle città e le risposte di comunità a roma e in altre metropoli italiane

Le città italiane come Roma, Torino, Milano, Napoli e Bologna affrontano le disuguaglianze sociali ed economiche attraverso reti di mutualismo e cittadinanza attiva che promuovono nuovi modelli di welfare comunitario.
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L'articolo analizza le disuguaglianze sociali ed economiche nelle città italiane, evidenziando come esperienze di mutualismo e cittadinanza attiva, soprattutto a Roma, Torino, Milano, Napoli e Bologna, stiano promuovendo nuovi modelli di welfare comunitario per contrastare marginalità e fragilità sociali. - Gaeta.it

Le città moderne mostrano con chiarezza le profonde disuguaglianze che segnano l’attuale sviluppo sociale ed economico. Tra zone benestanti e aree marginalizzate si alza un muro fatto di disparità in reddito, servizi essenziali e qualità della vita. A fronte di queste condizioni, nuove forme di cittadinanza attiva e mutualismo si affermano come alternative concrete, capaci di tessere relazioni solidali e promuovere modelli di welfare più vicini alle esigenze della popolazione. Roma, così come Torino, Milano, Napoli e Bologna, ospita esperienze innovative in questo campo, che meritano di essere raccontate alla luce dei contesti specifici e delle sfide aperte.

Le città come specchio delle disuguaglianze sociali ed economiche

Le grandi aree metropolitane rappresentano il cuore pulsante dell’economia globale e accumulano quasi la metà della popolazione mondiale. Esse attraggono milioni di persone con la promessa di lavoro, reddito, casa e servizi, ma mettono a nudo le contraddizioni più dure: una parte dei cittadini vive in quartieri con infrastrutture moderne e accesso agevolato a istruzione e sanità, mentre altri si trovano in zone periferiche spesso prive di servizi di base, esposti a rischi ambientali e sociali.

Le disuguaglianze si manifestano soprattutto nelle differenze di reddito, accesso ai trasporti pubblici, servizi sanitari e opportunità lavorative. Quartieri ricchi, come i Parioli o il Quirinale a Roma, registrano redditi medi annui che superano i 70.000 euro, mentre aree periferiche della stessa città, come Tor Bella Monaca o Acilia, non raggiungono spesso i 20.000 euro. Questo divario si traduce in una distanza molto concreta nella qualità degli spazi, nel senso di sicurezza e nelle possibilità di una vita dignitosa.

A tale condizione si somma l’aggravarsi della crisi del welfare tradizionale, che non riesce più a garantire una distribuzione equa dei servizi né una presa in carico efficace delle fasce più deboli. La perdita di rappresentanza politica, la crescente esclusione sociale e l’isolamento contribuiscono a creare sacche di marginalità difficile da affrontare con i modelli istituzionali classici. Le grandi città diventano allora laboratori dove si manifestano non solo le disuguaglianze ma anche, in alcune esperienze, le potenziali risposte.

La crisi del welfare pubblico e la nascita di pratiche di mutualismo e autorganizzazione

Il welfare tradizionale, basato sulla centralità dello Stato e sulla redistribuzione lineare, si è progressivamente ridotto nelle risposte e nelle risorse dedicate. In molte aree urbane questo deficit ha lasciato vuoti di assistenza e supporto che hanno fatto emergere in modo marcato fenomeni di esclusione materiale e sociale.

Per superare questi limiti, in più territori si sono moltiplicate esperienze di autogestione promosse da cittadini, associazioni, comitati e soggetti non istituzionali. Questi soggetti hanno cominciato a gestire in proprio spazi pubblici e privati inutilizzati, trasformandoli in centri di aggregazione, cultura, solidarietà e mutualismo. Le vecchie Case del Popolo, nate all’inizio del Novecento come punti di riferimento per il movimento operaio, hanno trovato nuova vita in forme diverse: centri sociali, cooperative, reti di mutuo soccorso.

Tali iniziative, spesso nate dal basso e senza supporto formale, hanno operato in modo informale o a volte quasi “clandestino” in edifici dismessi come scuole, ospedali, fabbriche o caserme. Qui hanno promosso attività ricreative, laboratori culturali, sport, formazione e attività di supporto ai più fragili. Nonostante alcune etichette negative, che le hanno definite “ghetti-rifugio” di marginali o migranti, molte esperienze sono riuscite non solo a mantenere attivi quartieri degradati ma anche a stimolare forme di solidarietà e partecipazione spesso assenti nelle istituzioni.

Nel periodo della pandemia, queste realtà hanno giocato un ruolo ancora più centrale, mettendo in campo coordinamenti innovativi per rispondere a bisogni immediati come la distribuzione alimentare, l’informazione e il supporto sociale, finendo spesso per sostituirsi alle reti istituzionali indebolite.

Le diverse reti di mutualismo urbano in quattro città italiane

Negli ultimi anni alcune città italiane hanno visto consolidarsi reti di mutualismo e welfare locale con caratteristiche originali. Torino ha puntato sulle case di quartiere, nate da pratiche autogestite e poi divenute strutture ufficiali con la collaborazione di enti pubblici e fondazioni. Questi spazi offrono servizi culturali, sociali, formativi e di orientamento al lavoro, diventando veri e propri presidi di comunità distribuiti sul territorio.

Milano ha sviluppato un panorama variegato di spazi ibridi e imprese sociali dedicati all’inclusione, mutualismo e cultura, tra cui realtà come Rob de matt e Olinda, nate in contesti come l’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini. Questi laboratori propongono modelli di welfare di prossimità che mettono al centro accoglienza e aggregazione.

A Napoli spicca la Rete dei Beni comuni e degli Usi civici, che riattiva spazi pubblici inutilizzati con criteri di gestione partecipata e inclusiva, puntando su accessibilità e autogoverno. L’Ex OPG Je so’ pazzo e l’Ex Asilo Filangieri sono esempi di queste realtà culturali e di mutualismo che operano in quartieri con alta vulnerabilità socioeconomica.

Bologna, infine, ha adottato dal 2014 il modello dell’amministrazione condivisa con i cittadini attraverso i patti di collaborazione. Il regolamento ha permesso di intensificare gli interventi di co-programmazione e co-progettazione, legando strettamente istituzioni e comunità attive.

Pur con approcci diversi, tutte queste città mostrano come queste reti lavorino a stretto contatto coi territori per rigenerare legami sociali, contrastare isolamento e frammentazione e promuovere pratiche alternative di lavoro, economia e cultura.

A roma i poli civici di mutualismo solidale: risposte dal centro storico alle periferie

Roma ha visto emergere nel post-pandemia i Poli civici di mutualismo solidale, strutture nate dal basso per affrontare le disuguaglianze economiche, sociali e soprattutto abitative. Questi poli non sono mera assistenza ma veri e propri laboratori di welfare comunitario che puntano a ricostruire relazioni di fiducia e appartenenza.

Nel rione Esquilino, zona centrale e multietnica, il polo civico riunisce più di trenta gruppi associativi, cooperative e collettivi, attorno a Spin Time Labs, centro autogestito che ospita circa 150 famiglie in un edificio occupato. Qui si promuovono attività culturali, educative e di supporto sociale che coinvolgono scuole, università e realtà locali, restituendo vivacità a un quartiere spesso percepito come degradato.

Nel quartiere Quarticciolo, periferia storicamente difficile, il polo si è sviluppato con la Palestra Popolare, che offre attività sportive a costi contenuti integrati da servizi di orientamento, mutualismo sanitario e formazione. L’esperienza è sostenuta da reti di associazioni e da occupazioni abitative, che insieme hanno dato vita a doposcuola, complessi artigianali e iniziative per contrastare emarginazione e criminalità.

Altri sette quartieri hanno accolto dal 2022 progetti simili, in zone come Casale Caletto, Torre Maura, Garbatella e Laurentino. Questi poli propongono banchi alimentari, sportelli per abitare e salute, laboratori di educazione alimentare e percorsi lavorativi, distribuiti in sedi associative e spazi pubblici. Il coordinamento tra loro ha portato all’adozione di moduli condivisi per facilitare l’accesso ai servizi istituzionali.

Nel 2024 l’Assemblea Capitolina ha approvato un regolamento che riconosce formalmente questi poli come istituti di partecipazione, con un albo e un organismo di coordinamento. Resta aperto il cammino per rafforzare finanziamenti stabili, ampliare azioni e consolidare l’autonomia organizzativa.

Sfide aperte e prospettive per un welfare di comunità nelle metropoli italiane

Le disuguaglianze sociali e la riduzione del sostegno del welfare pubblico rendono le città luoghi decisivi per sperimentare sistemi alternativi di cura e solidarietà. I poli civici a Roma e le reti in altre città rappresentano una risposta radicata nel territorio, in cui comunità attive costruiscono relazioni rassicuranti e sperimentano nuove forme di partecipazione.

Il riconoscimento istituzionale deve tradursi in un dialogo stabile tra amministrazione e soggetti civici, capace di garantire risorse continue senza intaccare l’autonomia e la vicinanza ai bisogni reali. Lavorare in rete con altre iniziative urbane, come i laboratori di quartiere e le scuole aperte a Roma, può ampliare l’effetto trasformativo di queste esperienze.

Il futuro di questi modelli dipenderà dalla loro capacità di estendersi, consolidare competenze e coinvolgere sempre più cittadini, mantenendo stretta la relazione con il territorio e abbandonando logiche assistenziali a favore di pratiche di corresponsabilità e innovazione sociale. La sfida rimane aperta, ma le città, scenari di disuguaglianze profonde, continuano a offrire spazi per nuove forme di solidarietà e comunità.

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