L’avvio della presidenza di Donald Trump ha segnato un cambiamento netto nella politica estera americana, che richiama per portata quella di Nixon. A cinque mesi dall’insediamento, il suo metodo prende forma chiara: espandere il potere esecutivo sia dentro gli Stati uniti che nel mondo. Trump rifiuta la moderazione, preferendo un ruolo centrale per gli Stati uniti in ogni trattativa o crisi internazionale.
Il consolidamento del potere esecutivo nella politica di trump
Walter Russell Mead, sul Wall Street Journal, mette in luce come la presidenza Trump si basi su un’ampliamento senza precedenti del potere nelle mani del presidente. Il suo approccio non guarda a un coinvolgimento bilanciato con alleati o istituzioni multilaterali, ma vuole vedere gli Stati uniti protagonisti incontrastati. Nonostante non segua ideologie neoconservatrici o internazionaliste liberali, Trump detesta gli organismi internazionali e minimizza il ruolo dei tribunali globali.
In patria, ha rafforzato il controllo sulle decisioni economiche e commerciali attraverso una politica che concentra le leve del potere nelle sue mani. Fuori dai confini, punta a proiettare la stessa leadership assoluta. Questo approccio si traduce in una strategia che ignora i compromessi diffusi nel mondo globalizzato, preferendo accordi diretti, basati più su relazione politica che su regole condivise.
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La strategia commerciale e la critica al sistema multilaterale
Una delle più forti polemiche intorno a Trump riguarda l’abbandono del modello multilaterale negli scambi commerciali. I suoi oppositori ritengono che gli accordi internazionali precedenti tutelassero l’interesse americano in modo più stabile e prevedibile. Al contrario, Trump punta a negoziare singolarmente con ciascun partner, convinto di ottenere condizioni migliori con un approccio personalizzato.
Il risultato di questa scelta è ancora da valutare, ma va notato come essa spinga l’America ad abbracciare una logica più fluida e a volte imprevedibile nei rapporti economici. La politica europea ne risente profondamente: dalle controversie sulla Groenlandia alle interferenze nel voto, dalle tensioni commerciali alla minaccia di uscita dalla Nato, ogni passo mira a rafforzare la posizione americana nelle capitali del Vecchio continente.
la proiezione del potere Usa in medio oriente e oltre
In medio oriente Trump ha scelto una strada poco incline a compromessi o processi di mediazione. Ignora consigli di moderazione e punta a riaffermare la supremazia americana controllando le dinamiche della regione. L’obiettivo è mantenere un’influenza robusta senza impegnarsi in conflitti militari lunghi, una politica che combina forza e pragmatismo.
Le azioni contro l’Iran, considerate la potenza revisionista più debole tra le grandi, funzionano anche come segnale per Russia e Cina. Con questa scelta, l’amministrazione intende ribadire la capacità di risposta degli Stati uniti e spronare l’Europa a rafforzare il suo apparato difensivo. La strategia fa capire chiaramente dove Trump vuole collocare l’America: al centro dello scacchiere globale, in grado di imporre la sua influenza.
la sfida a Russia e Cina nella geopolitica globale
La competizione con Russia e Cina domina il quadro della politica estera di Trump. Questi due paesi rappresentano i grandi ostacoli alle ambizioni americane, temono un ritorno a un ruolo egemonico deciso e senza esitazioni degli Stati uniti. La presidenza di Trump, eliminando equilibri multilaterali, crea un terreno di confronto diretto e senza vie di mezzo.
Non si può sapere quale sarà il risultato finale di questo confronto acceso. Quel che appare certo è che ogni mossa americana sarà studiata per mostrare il primato Usa rispetto a Vladimir Putin e Xi Jinping. Trump non mostra voglia di ritirarsi o rinunciare alle sfide globali, mantenendo un atteggiamento audace e deciso nell’orientare la politica estera americana. Finché sarà presidente, gli Stati uniti manterranno un ruolo attivo e spesso spigoloso nel confronto mondiale.