L’attacco americano a tre siti nucleari iraniani nella notte tra sabato e domenica ha riacceso tensioni già fortissime in Medio Oriente. Donald Trump ha subito definito l’operazione un successo, parlando con giornalisti e alleati, senza però chiarire le ragioni precise dell’offensiva né illustrare una strategia di lungo termine. La crisi si muove quindi in una zona grigia, tra gesti militari spettacolari e assenza di obiettivi concreti, con rischi che continuano a salire.
Le prime ore dopo i bombardamenti: trump celebra l’operazione con giornalisti e alleati
Poche ore dopo i bombardamenti contro siti nucleari iraniani, Trump ha preso contatti diretti con vari media per raccontare ai suoi interlocutori la riuscita dell’attacco. La primissima chiamata, appena terminate le operazioni, è stata a Sean Hannity, conduttore della rete Fox News. Quattro minuti che hanno segnato il tono trionfale della comunicazione presidenziale. Successivamente, Trump ha telefonato anche a diversi giornalisti importanti come Barak Ravid di Axios, a cui ha assicurato che Israele sarà più sicura, e reporter di ABC, NBC, e del Wall Street Journal.
Attenzione alla narrazione pubblica
Il presidente ha dimostrato particolare attenzione a curare la narrazione pubblica dell’evento, ma è sembrato evitare dettagli sulle motivazioni approfondite che hanno portato all’attacco. Per testimoniare la sua soddisfazione, in alcuni colloqui ha invitato ironicamente a un trattamento più benevolo rispetto al passato, mettendo in evidenza il ruolo centrale che ha dato a questo blitz nella sua agenda politica estera.
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Dietro la scelta dell’attacco c’è la volontà di Trump di enfatizzare l’aspetto bellico come segno di forza. Negli ultimi mesi, l’ex presidente ha più volte espresso ammirazione per azioni militari complesse, lodando pure operazioni come quella ucraina “ragnatela”. Il successo tecnico dell’attacco iraniano diventa così il simbolo morale che Trump usa per consolidare l’immagine di un presidente deciso a non lasciarsi sopraffare dalle critiche.
Divisioni nell’entourage
Nel suo entourage però restano evidenti divisioni. La base isolazionista appare spiazzata, alcuni come Steve Bannon hanno già messo le mani avanti, sostenendo che un eventuale coinvolgimento più ampio sarà poi giustificato dal successo del conflitto. Keith Kellogg, inviato speciale per l’area ucraina, ha descritto l’atmosfera come quella di una squadra sportiva che ha appena vinto un campionato, esaltando la sensazione di potere. Quel che emerge è una politica estera che privilegia il gesto simbolico, non l’iter di azioni ragionate e calibrate.
Il rischio concreto di un’escalation e l’assenza di un obiettivo definito
Nonostante i trionfi a parole, nelle ore immediatamente successive è emersa la fragilità della posizione americana. Trump continua a parlare di negoziati e pace, ma lascia aperta anche la possibilità di un cambio di regime in Iran. Questo cozza con la stabilità dell’area, dove le basi americane restano esposte e l’Iran può rispondere con azioni militari dirette.
A peggiorare la situazione hanno contribuito le decisioni di paesi mediatori come il Qatar, che ha bloccato lo spazio aereo per allerta di un possibile attacco a una base USA, e le tensioni crescenti in Iraq e Siria, dove sono in corso ritiri americani ma resta una presenza significativa. Secondo Teheran, proprio gli attacchi americani hanno coinvolto questi due stati, alimentando il rischio di una reazione a catena.
In questo contesto, la mancanza di chiarezza sui successivi passi da parte di Washington, unita all’assenza di un piano complessivo per contenere il conflitto, rende lo scenario molto pericoloso e imprevedibile. La politica americana sembra oscillare tra il desiderio di mostrare potenza e la difficoltà reale di costruire una strategia coerente per gestire la crisi in medio oriente.