Il controllo della camorra flegrea non si è fermato alle sbarre per Gennaro Sannino, noto come “Gennarino ‘o vet”. Nonostante fosse detenuto da due anni per estorsione, il boss di Monterusciello ha mantenuto il comando del suo clan attraverso l’uso illecito di un telefono cellulare, fatto scoperto durante un controllo in carcere. Il recente trasferimento a Palermo, con un regime di sorveglianza più rigido, ha interrotto i suoi legami esterni e rappresenta una forte risposta delle forze dell’ordine verso le dinamiche criminali nascoste dietro le mura del carcere.
Le attività criminali di sannino dietro le sbarre a pozzuoli
Gennaro Sannino è stato arrestato e rinchiuso nel carcere di Pozzuoli circa due anni fa per reati connessi all’estorsione. Nonostante ciò, ha continuato a mantenere il controllo sul gruppo criminale di Monterusciello. Le indagini hanno rivelato che, attraverso un telefono cellulare nascosto, il boss impartiva ordini e coordinava affari illeciti. Il cellulare era in uso da un suo compagno di cella affiliato al clan Longobardi-Beneduce, un particolare che ha consentito la scoperta quasi casuale di questa rete malavitosa interna al carcere. Le conversazioni intercettate hanno mostrato come Sannino conservasse una sorta di comando incontrastato, esercitando influenza anche da dietro le sbarre.
Questa capacità di continuare a operare nonostante la detenzione sottolinea la portata e la forza del clan di Monterusciello, capace di mantenere strutture di comando dentro e fuori dal carcere. Il controllo dei territori e delle attività criminali legate alla camorra non si è mai interrotto, alimentando la necessità per le autorità di adottare misure più rigorose per frenare questi meccanismi. Le dinamiche rilevate nel carcere di Pozzuoli hanno quindi svelato come i boss di camorra sfruttino ogni mezzo per continuare i loro affari.
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Il ruolo decisivo delle indagini e il coinvolgimento dei pentiti
La scoperta del telefono cellulare non è stata frutto di un’indagine mirata esclusivamente su Sannino, ma è emersa durante un controllo ordinario nella casa circondariale. Il cellulare segnalato è appartenuto a un detenuto vicino al clan Longobardi-Beneduce, che fungeva da intermediario nelle comunicazioni con il boss. Questa rivelazione ha aperto le indagini che hanno confermato come la figura di Sannino rimanesse centrale nell’organizzazione criminale, nonostante la detenzione.
L’operazione ha preso forza anche grazie alle dichiarazioni di due suoi nipoti, Luigi e Umberto Sannino, entrati nel programma di protezione per collaborare con la giustizia. I pentiti hanno fornito dettagli sulle modalità di controllo della cosca, sui traffici e sulle strategie di comando mantenute anche durante la detenzione del capo. Queste testimonianze hanno inciso profondamente sulle indagini, contribuendo a disegnare un quadro chiaro delle dinamiche interne e a giustificare il trasferimento del boss.
Le dichiarazioni di Luigi e Umberto hanno fatto emergere segreti che hanno messo in crisi il clan stesso, portando a una netta rottura degli equilibri criminali. Sono stati proprio gli approfondimenti dall’interno a dare alle forze dell’ordine la possibilità di intervenire per stroncare la rete di comunicazioni e impedire ulteriori ordini dal carcere di Pozzuoli.
Il trasferimento a Palermo come misura restrittiva per spezzare il comando
La decisione di trasferire Gennaro Sannino al carcere di Palermo è stata una risposta diretta alle scoperte investigative. Il carcere siciliano offre un regime di sorveglianza più rigido e una maggiore distanza geografica dal territorio di appartenenza del boss che, in questo modo, perde contatto diretto con i suoi affiliati e con la rete di comando. Questo spostamento ha come obiettivo principale l’isolamento e l’interruzione dei legami di controllo che il capo esercitava da Pozzuoli.
Il trasferimento dimostra la volontà dello Stato di intervenire anche contro le strutture criminali che operano dall’interno degli istituti penitenziari. L’azione mira a garantire una maggiore sicurezza non solo nei territori controllati dalla camorra, ma anche nei penitenziari stessi, dove la presenza di figure di spicco può generare rischi per la gestione interna e per l’ordine pubblico.
Questo cambio di sede carcere rappresenta un segnale forte contro ogni tentativo di perpetrare attività fuori legge dietro le sbarre e permette di tenere sotto controllo più stretto i contatti di chi gestisce gruppi criminali. Lo Stato intende così erodere le reti di potere camorristiche che si consolidano proprio grazie a strumenti di comunicazione proibiti e contatti interni al sistema penitenziario.
La vicenda di Gennaro Sannino conferma quanto delicata sia la lotta alla criminalità organizzata, nel momento in cui il centro del potere può spostarsi ovunque, anche all’interno del carcere. Resta vivo l’impegno delle autorità per impedire che questi boss continuino a governare sottotraccia.