Negli ultimi giorni, le tensioni tra Stati Uniti e Cina hanno preso una piega significativa con l’annuncio di un possibile accordo commerciale. Mentre la Casa Bianca celebra una tregua sui dazi, i media cinesi mantengono una posizione prudente. Dietro alle trattative emerge un quadro complesso che coinvolge questioni di tecnologia, sicurezza e politica interna americana, con ripercussioni sulla percezione globale di entrambe le superpotenze.
Il negoziato tra washington e pechino: una tregua con concessioni tecnologiche
Il 2025 ha visto un’accelerazione nei colloqui tra Stati Uniti e Cina, culminati ieri con la dichiarazione del presidente Trump di aver “concluso un accordo” che dovrà ricevere l’approvazione definitiva da lui e da Xi Jinping. Tuttavia, il tono dei media cinesi è stato più cauto. Il viceministro del Commercio Li Chenggang, presente alle discussioni a Londra, ha spiegato che le parti hanno raggiunto un’intesa “in linea di principio” riguardo a un accordo quadro, con riferimento diretto alle precedenti telefonate e incontri a Ginevra.
La reale novità consiste nella sospensione temporanea dell’escalation tariffaria prevista. Per arrivare a questo compromesso, gli Stati Uniti hanno accettato di modificare alcune restrizioni sulle esportazioni di materiali tecnologici altamente sensibili, come semiconduttori e microchip. I visti per studenti cinesi tornano attivi dopo che si profilava una stretta da parte di funzionari americani, in particolare su decisioni dello stesso segretario di stato. Questi contenuti mostrano una certa flessibilità della Casa Bianca rispetto alla linea dura adottata da Biden nei mesi precedenti.
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La posizione di forza di pechino
Non a caso, Pechino ha dimostrato durante i negoziati di mantenere una posizione di forza. Le autorità cinesi hanno imposto un limite di sei mesi per le licenze di esportazione di terre rare, risorsa cruciale per l’industria statunitense, di cui la Cina detiene quasi il monopolio globale. Questa strategia, riportata da fonti come il Wall Street Journal, mira a far leva nella fase successiva delle trattative, mantenendo un controllo stretto sui materiali indispensabili. La posta in gioco ha toccato questioni che, fino a oggi, erano considerate fondamentali per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e mai oggetto concreto di negoziazione.
La crisi interna americana accelera la propaganda cinese
La disputa commerciale non è l’unico terreno dove si manifesta il confronto tra Washington e Pechino. Gli episodi di tensione interna negli Stati Uniti, soprattutto in California, si trasformano in materiale di propaganda per il governo cinese. Media cinesi e influencer politici hanno evidenziato le turbolenze sociali e politiche americane come segni di una crisi più profonda nel sistema di governo. Non è passato inosservato il paragone tra le manifestazioni californiane e le proteste di Hong Kong, con note ironiche e provocatorie che suggeriscono un intervento cinese in territorio statunitense in casi estremi.
Strategie di influenza culturale
In quest’ottica, si segnala anche un’iniziativa parallela: mentre gli Stati Uniti espellono influencer stranieri, esempio recente è l’italiano Khaby Lame, la Cina avvia programmi per finanziare la collaborazione tra influencer americani e cinesi. Questa strategia riflette una volontà di Pechino di rafforzare la propria influenza culturale negli USA, sfruttando il disagio e le divisioni interne degli Stati Uniti.
Gli sviluppi di questi giorni sono pure collegati a scelte di politica estera americana. Fonti come il Financial Times segnalano che Washington sta rivedendo il patto Aukus con Regno Unito e Australia, accordo nato nel 2021 per limitare l’espansione militare cinese nella regione indo-pacifica. Questo ripensamento indebolisce la posizione statunitense nel confronto strategico con Pechino e amplifica la sensazione di un’amministrazione americana incerta.
Il governo trump e la sfida alla legalità: la crisi in california sotto la lente
L’aumento delle tensioni interne negli Stati Uniti si manifesta soprattutto in California, dove il governo federale ha assunto posizioni che il passato avrebbe definito eccezionali. Secondo Jeremy D. Mayer, docente della George Mason University, l’azione di Trump si sta spingendo ben oltre i limiti imposti dalla legge e forse anche dalla Costituzione. La decisione di nazionalizzare la Guardia nazionale, portandola sotto il controllo del governo centrale invece che del governatore, rappresenta una rottura delle norme normalmente applicate negli Stati Uniti.
Precendenti storici e rischi attuali
Mayer ricorda che, storicamente, solo in situazioni estreme, come l’imposizione dell’integrazione razziale negli anni ‘50, le truppe federali hanno avuto un ruolo così diretto nelle questioni di uno stato. In quel caso, era chiaro che il presidente agiva per difendere la Costituzione e le sentenze della Corte suprema. Qui invece, il presidente in carica agisce unilateralmente, ignorando le competenze statali e creando un precedente pericoloso.
In aggiunta alla presenza della Guardia nazionale già poco convenzionale, sono stati dispiegati anche i Marine, una mossa che, secondo osservatori, ricorda più metodi autoritari che valori democratici. Questa escalation si inserisce nel quadro generale di una crisi politica e istituzionale profonda, che tra l’altro offre ampio materiale alla propaganda straniera per mostrare un’immagine di debolezza e caos degli Stati Uniti.
Le tensioni tra il potere centrale e lo Stato della California rappresentano uno degli snodi principali della drammatica situazione politica americana attuale. L’intervento diretto, in risposta a proteste o emergenze, pone domande fondamentali sul bilanciamento tra sovranità statale e autorità federale, un tema cruciale in uno scenario democratico. Gli sviluppi nelle prossime settimane potrebbero segnare un punto di non ritorno nel confronto tra le diverse anime del potere americano.