Il processo a carico di tre palestinesi arrestati dalla Digos dell’Aquila nel marzo 2024 con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo si è fermato di nuovo. Il tribunale ha deciso di posticipare l’udienza al 18 giugno, perché mancano ancora le traduzioni delle chat in arabo, fondamentale elemento di prova chiave. Il caso riguarda Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh, protagonisti di un procedimento complesso che continua a suscitare interesse e discussioni. Intanto, due degli imputati sono stati scarcerati per insufficienza di prove.
Dettagli sul rinvio e sulle motivazioni procedurali
La terza udienza del processo previsto a maggio scorso non si è potuta svolgere come da calendario. Il giudice ha disposto un rinvio a giugno, dopo aver verificato che il perito incaricato di tradurre le conversazioni in arabo presenti negli atti non ha ancora completato il lavoro. Le chat potevano offrire prove cruciali per accertare i fatti e stabilire il ruolo di ciascun imputato.
Il deposito delle traduzioni è infatti un passaggio imprescindibile per l’istruttoria: senza la versione comprensibile a tutti i soggetti coinvolti, la Corte non può procedere con la valutazione. Questa lacuna ha imposto al tribunale di fermarsi e programmare una nuova data per ascoltare le parti. Questo slittamento si aggiunge agli altri ostacoli già incontrati durante l’inchiesta e il processo, rallentandone il corso.
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Gli imputati sono stati arrestati nel marzo 2024 dalla Digos dell’Aquila, con l’accusa di associazione a finalità di terrorismo. Tuttavia Ali Irar e Mansour Doghmosh sono stati scarcerati quasi subito, dopo che la procura ha riconosciuto la mancanza di elementi sufficienti a tenerli in custodia. Rimane in carcere Anan Yaeesh, considerato dai magistrati la figura centrale del procedimento.
Posizioni degli imputati e sviluppi del processo
Nel corso dell’ultima udienza, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, difensore principale del collegio, ha ribadito la linea difensiva. Ha ricordato che Yaeesh ha sempre ammesso il suo sostegno alla resistenza palestinese, vista da lui come lotta legittima contro l’occupazione israeliana. Gli altri due imputati invece si sono dichiarati estranei ai fatti contestati, pur confessando un interesse per le tensioni politiche legate alla questione palestinese.
La Corte, monitorando la posizione dei tre, continua a valutare con attenzione la solidità delle accuse e la coerenza delle prove raccolte. È stato già stabilito il calendario per le prossime udienze: dal 25 al 27 giugno sono attesi i testimoni dell’accusa, mentre il 9 e 10 luglio prenderanno la parola i pochi testimoni ammessi a difesa, con possibilità per gli imputati stessi di esprimersi. Proprio il 10 luglio potrebbe essere pronunciata la sentenza definitiva.
Questa struttura mette in evidenza una linea temporale precisa, che lascia intendere come il tribunale voglia chiudere il procedimento entro l’estate, dopo avere ascoltato tutti i soggetti coinvolti.
Controversie sugli interrogatori delle autorità israeliane
Un altro capitolo delicato del processo riguarda la richiesta del pubblico ministero di acquisire oltre venti verbali di interrogatori svolti da servizi di sicurezza israeliani, tra cui lo Shin Bet. Questi documenti, secondo l’accusa, dovevano rafforzare il quadro probatorio con elementi raccolti da altri presunti prigionieri palestinesi coinvolti in indagini parallele.
Questi verbali tuttavia sono stati negati al pubblico ministero dalla Corte, che ha stabilito il rispetto del codice di procedura penale italiano escludendo l’utilizzo di atti prodotti da autorità straniere in modo non conforme. I verbali sono stati restituiti e non potranno essere presentati come prove in aula.
Questa decisione ha suscitato reazioni contrastanti fra le parti, complicando ancora di più l’istruttoria e limitando le fonti che l’accusa può mettere in campo contro gli imputati.
Manifestazioni e reazioni esterne al tribunale dell’aquila
Nel giorno dell’udienza, un gruppo di manifestanti si è radunato fuori dal tribunale dell’Aquila per esprimere solidarietà agli imputati. Luigia Di Biase, presente al sit-in, ha dichiarato che una condanna nei loro confronti rappresenterebbe la criminalizzazione di qualunque protesta contro quello che ha definito genocidio, apartheid e occupazione coloniale a danno del popolo palestinese.
Queste voci confermano come il procedimento abbia una valenza simbolica anche al di fuori delle aule di giustizia, toccando nervi scoperti nella discussione pubblica su politica internazionale e diritti umani. Le manifestazioni hanno raccolto vari cittadini e gruppi che vedono la vicenda come un caso di rilevanza politica e sociale.
La presenza della protesta sottolinea la sensibilità del tema e la polarizzazione che ancora si registra su un conflitto lontano, ma con ricadute dirette anche sul tessuto sociale italiano.