L’agguato a san mauro torinese risale all’estate del 2004, quando un pensionato calabrese è stato assassinato in un contesto apparentemente tranquillo. Solo dopo due decenni, un’indagine riaperta e l’uso della scienza forense hanno permesso di chiarire l’origine di una vicenda di sangue radicata nelle faide della ‘ndrangheta calabrese. L’episodio intreccia drammi familiari, vendette antiche e resistenze criminali lontane dalle luci del nord Italia.
Il contesto dell’omicidio a san mauro torinese
L’11 luglio 2004, in un tranquillo quartiere di san mauro torinese, il silenzio della sera è stato rotto da cinque colpi di pistola sparati a breve distanza. Giuseppe Gioffrè, 77 anni, si trovava seduto su una panchina del giardinetto sotto casa, intento a godersi il fresco dopo una giornata estiva. I colpi lo colpirono a morte; i sicari si allontanarono a bordo di una Fiat Uno, poi ritrovata nelle vicinanze completamente bruciata.
Le indagini iniziali puntarono a individuare i colpevoli ma i dettagli emersi non furono sufficienti. Nessun testimone diretto, solo tracce residue che sembravano insufficienti per arrivare a una condanna. L’auto data alle fiamme e la bottiglietta d’acqua rinvenuta nei pressi della fuga rimanevano chiavi del mistero, apparentemente senza risposte immediate. La scena del crimine ricordava un’esecuzione mafiosa, come descritto nei rapporti della polizia.
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La freddezza con cui è stato compiuto l’omicidio, senza nessuna parola scambiata tra vittima e assassini, lasciava intendere un messaggio preciso, costruito lontano dagli sguardi e dal tempo.
La figura di giuseppe gioffrè e il suo passato controverso
Le radici della faida nella ‘ndrangheta calabrese
Per comprendere la matrice dell’assassinio di Gioffrè, bisogna tornare agli anni sessanta a Sant’Eufemia d’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria. Qui il protagonista era un piccolo commerciante che, secondo i racconti, rifiutava di pagare il pizzo alle cosche locali. Nel 1964, durante una discussione, uccise due persone ritenute vicine alla cosca Dalmato-Alvaro. Questo gesto scatenò una rottura insanabile tra Gioffrè e le organizzazioni criminali locali.
La ‘ndrangheta non ignorò la cosa: Gioffrè finì in carcere, mentre la sua famiglia fu presa di mira poco dopo. Nel 1965, moglie e figlio furono assassinati in un agguato notturno. Atti processuali riportano alti particolari raccapriccianti, come rituali che i vendicatori avrebbero compiuto per suggellare la loro sete di giustizia tribale. Questi eventi lasciarono profonde tracce nelle storie raccontate a Sant’Eufemia, alimentando un giuramento di vendetta che la ‘ndrangheta porta avanti senza limiti temporali.
Dopo l’uscita di prigione, nel 1976, Gioffrè scelse di trasferirsi in Piemonte, sperando di mettere un confine tra sé stesso e il passato doloroso. A san mauro torinese si risposò e lavorò nel tentativo di ricostruirsi una vita. Ma la lunga memoria dei clan non si fermava al trasferimento geografico: la faida continuava ad attraversare gli anni fino a raggiungerlo a sorpresa.
Nuove tecnologie forensi riscrivono la verità sul caso
Il processo per l’omicidio si è prolungato per anni, spesso su piste che portavano a pochi risultati solidi. Un primo arresto riguardò Stefano Alvaro, che venne condannato a 21 anni. Quella condanna però non chiudeva la vicenda.
Nel 2022 l’indagine riprese grazie al reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri , che analizzarono il dna sulla bottiglietta d’acqua trovata vicino all’auto usata dai killer. Quel dna chiave portò a Giuseppe Crea, un nome collegato alle cosche calabresi. Le prove permisero di collegare anche Paolo Alvaro, figlio di uno degli uomini uccisi da Gioffrè anni prima. I fatti si ricongiungevano, svelando una vendetta orchestrata con calma e determinazione a distanza di 40 anni.
L’uso del dna si è rivelato fondamentale per far luce su una vicenda che altrimenti sarebbe rimasta nel buio. Sfruttando tecniche scientifiche più avanzate, gli inquirenti hanno dimostrato come vecchie faide possano manifestarsi a distanza di generazioni e territori, lasciando dietro di sé scie di sangue e dolore.
L’indagine scientifica e il contributo dei RIS
Il processo d’appello e la posizione del procuratore generale
Nel corso del processo d’appello davanti alla corte d’assise di Torino, il procuratore generale Marcello Tatangelo ha chiesto la conferma delle condanne a trent’anni per Crea e Alvaro. Le accuse non si limitano all’omicidio ma evidenziano la natura di un’esecuzione pianificata, legata a una rigida legge del “codice d’onore” mafioso.
Tatangelo ha definito non accettabile la concessione di attenuanti generiche, sottolineando che la vendetta era stata portata avanti a dispetto della giustizia statale. Ha inoltre evidenziato il disprezzo verso ogni logica civile insito nell’atto, che si è consumato con freddezza e senza esitazioni.
La decisione della corte di riunire le posizioni dei due imputati ha dato un segnale netto, e la richiesta di conferma delle condanne rafforza la risposta dello stato contro queste vecchie ruggini criminali. La vicenda di Gioffrè testimonia quanto a volte la memoria della ‘ndrangheta superi ogni distanza geografica, ricercando vendette che somigliano a un’eredità da onorare.
Riflessioni sulle faide e sul ruolo della giustizia
La storia di Gioffrè mette in luce l’effetto duraturo e violento delle faide di ‘ndrangheta. La vicenda mostra che queste guerre non hanno scadenze utili ma si alimentano di ricordi, riti e implacabile determinazione. Anche l’allontanamento fisico e la volontà di voltare pagina non bastano a interrompere la scia di sangue.
San mauro torinese, una località lontana dalla Calabria, è stata teatro di una vendetta rimasta nascosta sotto una superficie tranquilla per decenni. Solo la perseveranza delle forze dell’ordine e il progresso nelle analisi forensi hanno permesso di ricostruire e chiudere questa pagina di storia criminale.
Il caso ricorda come nessuna azione di violenza mafiosa sia immune al giudizio della legge, anche se questo giudizio arriva dopo molti anni. La capacità di collegare fatti lontani e dettagli apparentemente marginali ha dato un nome e un volto agli esecutori, smascherando un disegno di morte che sarebbe potuto passare inosservato.
Questa vicenda offre un monito sulla lunghezza della memoria mafiosa e sulla necessità di non abbassare mai la guardia di fronte al crimine organizzato. Si conferma inoltre l’importanza delle tecnologie investigative per affrontare casi rimasti a lungo irrisolti, trasformando il silenzio in verità.