Lo spettacolo teatrale “Pinocchio. Che cosa è una persona?” si presenta come un viaggio sulla ricerca dell’identità, portato in scena da ragazzi con diverse abilità e le loro famiglie. Il regista Davide Iodice ha scelto il personaggio di Collodi per parlare della normalità fra percezioni sbagliate e accettazione. Contemporaneamente, alla Biennale di Venezia, Romeo Castellucci propone una performance drammatica e oscura ambientata sull’isola di Lazzaretto Vecchio, sfidando gli spettatori con immagini forti e simboli enigmatici.
La sfida di rappresentare l’identità e la persona a partire da pinocchio
Il punto di partenza di “Pinocchio. Che cosa è una persona?” nasce da un passo particolare del celebre racconto di Collodi, in cui Geppetto si trova nella pancia della balena e nota che la candela sta per spegnersi; Pinocchio chiede “e dopo?”, un interrogativo che si trasforma nel filo rosso che attraversa tutta la messinscena. Davide Iodice ha coinvolto nella sua Scuola Elementare del Teatro APS di Napoli un gruppo di giovani con sindrome di Down, autismo, Asperger e altre condizioni, insieme a genitori e tutori. L’obiettivo è mettere al centro la persona e la sua espressione, senza etichette o giudizi, ricordando come dietro ogni “diversità” ci sia comunque un percorso di scoperta e affermazione di sé.
In scena, compaiono piccoli accenni ai nasi di Pinocchio che segnano le bugie e tradiscono la ricerca della propria verità. I ragazzi si mostrano in performance che non vogliono suscitare compassione o commozione facile, ma piuttosto offrire uno spazio di libertà e ascolto. La bugia qui si trasforma in un simbolo per far emergere una realtà più autentica e complessa. Il tema della normalità viene messo in discussione, mostrato come concetto ambiguo che rischia di escludere chi non rientra negli schemi convenzionali. Così si svela la necessità di ripensare i diritti di ogni persona, la sua libertà di esprimersi e di essere felice secondo le proprie possibilità.
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Il ruolo del grillo parlante e dei personaggi della commedia dell’arte
Parallelamente, il celebre grillo parlante riappare come voce critica, incalzato dai fraintendimenti e dalle difficoltà che tutti devono affrontare. Ognuno dei partecipanti si presenta accompagnato dai propri genitori o tutori in un girotondo dove si intrecciano emozioni e desideri di normalità e riconoscimento. Tra le scene, emergono riferimenti alla commedia dell’arte con l’arrivo di Colombina e Arlecchino, che superano i loro ruoli tradizionali grazie a un racconto profondamente umano sull’amore e la libertà. Il lavoro di Iodice è un invito a vedere al di là delle apparenze e a chiedersi cosa succederà dopo, in una società che spesso fatica a fare spazio a chi necessita di attenzioni diverse.
L’approccio dei ragazzi e dei genitori al palco come luogo di espressione
Lo spettacolo diventa occasione per i giovani e i loro accompagnatori di mostrare abilità e identità in un contesto condiviso e non giudicante. La scena non funziona come un dispositivo emotivo volto a “commuovere”, ma come spazio in cui gli interpreti parlano liberamente di sé, delle loro sfide e di ciò che li rende unici. Il pubblico si confronta con forme di comunicazione che spesso esulano dal linguaggio verbale tradizionale, tra movimenti, gesti e sguardi.
Questo approccio supera la classica rappresentazione di uno spettacolo dove gli interpreti sono “diversi” da osservare. Qui la presenza dei genitori e caregiver, che raccontano anche la fatica di immaginare un futuro diverso da quello subito prefigurato dalla società, crea una relazione diretta con la platea. Sono storie di quotidianità che arrivano a far sentire la complessità di un percorso di vita fatto di aspettative, illusioni e attese non corrisposte. I nasi di Pinocchio, i simboli delle bugie, ogni elemento scenico acquisiscono un valore metaforico per discutere di vecchi pregiudizi.
Il pubblico applaude con partecipazione questo confronto sulla diversità e l’identità, che si accompagna a un invito costante a non lasciar cadere la domanda “e dopo?”, posta dal burattino al suo creatore. È un monito a non dimenticare che il presente deve aprirsi a un futuro dove l’accoglienza sociale non sia solo un progetto ma una pratica concreta. La volontà di esprimersi liberamente rappresenta così uno spazio di dignità e riconoscimento, riconsegnando senso a quello che spesso resta fuori dalle narrazioni comuni.
Una performance a venezia tra ombre, simboli e corpi nascosti nel sacco
A qualche centinaio di chilometri di distanza, alla Biennale di Venezia, Romeo Castellucci propone un’opera dal carattere opposto, con atmosfere oscure, inquietanti e simbolismi complessi. “I mangiatori di patate” si svolge sull’isola del Lazzaretto Vecchio, luogo che nel passato ospitava appestati e merci infette, ambientazione che conferisce un alone di isolamento e morte. Gli spettatori attraversano spazi vasti e silenziosi, destreggiandosi tra magazzini e corsie dismesse, dove appaiono sacchi neri che sembrano contenere corpi, creando un’atmosfera di attesa e tensione.
Il suono accompagna le scene con forti rumori e raffiche di vento, tanto da richiedere tappi per le orecchie a chi è sensibile. Dal buio emergono uomini con caschi da minatore che lentamente scoprono il contenuto dei sacchi, una donna nuda e immobile che rappresenta forse una vittima, un oggetto o un simbolo di vulnerabilità. Alle loro spalle si staglia un angelo dalle ali spiegate che stringe in mano la propria testa, immagine enigmatica e forte che lascia aperte molte interpretazioni.
La drammaticità del messaggio e la ricerca di senso
Castellucci non fornisce spiegazioni attraverso un testo convenzionale, ma propone poche parole chiave come “Caduta”, “Statua”, “Fame” e “Christus” da collegare all’azione spettacolare. Questo invito a lasciare spazio alle interpretazioni rende il tutto privo di una narrazione lineare, più un’esperienza immersiva e provocatoria. La violenza delle immagini, il silenzio dei corpi e il tema della segregazione si fondono in un’atmosfera sospesa tra sogno e incubo. Qualcuno ha paragonato quel fatto a una sorta di “Biancaneve noir”, segno di quanto il pubblico cerchi ancore di senso in un’esibizione che nega le risposte facili.
Il contrasto tra il lavoro di Iodice e quello di Castellucci è netto. Se il primo dà voce a persone che cercano la propria identità con coraggio e tenerezza, il secondo immerge il pubblico in un’esperienza spesso dura da cogliere immediatamente, capace però di aprire riflessioni profonde sul corpo, la reclusione e la memoria collettiva. Entrambi, in modi diversi, mettono in scena la complessità della condizione umana, invitando a un dialogo che va oltre la semplice rappresentazione.