Migranti ridotti in schiavitù a nardò tra 2008 e 2011, confermata sentenza cassazione dopo 13 anni

Migranti ridotti in schiavitù a nardò tra 2008 e 2011, confermata sentenza cassazione dopo 13 anni

La corte di cassazione conferma la responsabilità dei caporali per lo sfruttamento e la riduzione in schiavitù dei migranti africani a Nardò, escludendo quella dei datori di lavoro nel lungo processo giudiziario.
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La Corte di Cassazione ha confermato la responsabilità dei caporali per lo sfruttamento e la riduzione in schiavitù di migranti africani nelle campagne di Nardò, escludendo invece la colpevolezza dei datori di lavoro. - Gaeta.it

Nel territorio di nardò, tra il 2008 e il 2011, un gruppo di migranti africani venne impiegato nella raccolta di pomodori e angurie in condizioni che la giustizia ha definito di schiavitù. La corte di cassazione ha definitivamente chiuso il procedimento giudiziario confermando la responsabilità degli intermediari, i cosiddetti caporali, ma escludendo quella dei datori di lavoro per il reato di riduzione in schiavitù. Il processo, durato 13 anni, ha messo in luce le dinamiche di sfruttamento nei confronti dei lavoratori migranti privati di diritti fondamentali pur senza una costrizione fisica evidente.

Il contesto dello sfruttamento dei migranti nelle campagne di nardò

Tra la fine degli anni 2000 e l’inizio del decennio successivo, diversi migranti, soprattutto provenienti dall’africa, arrivarono in italia via mare, spesso attraversando la libia. Molti di loro si diressero volontariamente verso la zona di nardò, attratti dalla possibilità di lavoro stagionale nella raccolta di angurie e pomodori. Nonostante la libera circolazione, questi lavoratori erano intrappolati in condizioni economiche e sociali difficili che ne limitavano fortemente l’autonomia. La loro vulnerabilità derivava dalla mancanza di risorse, dalla scarsa conoscenza della lingua italiana e dall’ignoranza dei propri diritti.

Non si trattava di costrizioni fisiche evidenti, ma di una condizione di bisogno così profonda da diventare una forma di pressione psicologica continua. I migranti si trovavano spesso a dover accettare condizioni di lavoro degradanti, abitazioni fatiscenti e paghe ridotte. Inoltre, le retribuzioni venivano ulteriormente decurtate per coprire spese minime come l’acquisto di un panino o addirittura dell’acqua. In questo quadro, le cosiddette “catene” erano invisibili ma reali, formando un sistema di sfruttamento che negava una vera libertà di scelta.

La sentenza della corte di cassazione sulle responsabilità degli attori coinvolti

Dopo un iter giudiziario lungo e complesso, la corte di cassazione ha confermato la condanna degli intermediari, identificati come i caporali, per il reato di riduzione in schiavitù. Questi ultimi hanno sfruttato la debolezza dei migranti impiegandoli a basso costo e con metodi che impedivano qualsiasi forma di autodeterminazione. La cassazione ha chiarito che la schiavitù si configura anche senza costrizione fisica, basandosi invece sulla privazione sostanziale della libertà data dallo stato di bisogno estremo e isolamento.

Allo stesso tempo, i giudici hanno stabilito che i datori di lavoro non possono essere considerati responsabili di questo reato. La decisione si basa sull’assenza di prove di un’organizzazione criminale che coinvolgesse anche i datori e sulla mancanza di elementi concreti che dimostrino una loro compartecipazione attiva alla riduzione in schiavitù. Pur essendo stati i beneficiari indiretti della manodopera a basso costo, gli imprenditori non sono stati ritenuti consapevoli o partecipi delle condizioni di sfruttamento estremo imposte dagli intermediari.

Anche il reato di caporalato, introdotto successivamente al periodo contestato, non è stato applicato ai datori di lavoro. Questo perché le norme vigenti al tempo non includevano questo specifico delitto e la loro colpevolezza non è stata dimostrata in riferimento a quei fatti. La sentenza ribadisce la necessità di distinte responsabilità tra chi gestiva materialmente i migranti sul campo e chi ne traeva profitto in modo indiretto.

Le posizioni di pm e parti civili nel corso del procedimento

Durante il processo, la pubblica accusa aveva sollevato obiezioni al riguardo della responsabilità dei datori di lavoro. Il pm aveva sostenuto che gli imprenditori non potevano ignorare le condizioni di vita dei migranti, viste le molteplici interazioni con gli intermediari. A suo avviso, la natura dei contatti avrebbe dovuto mettere in allarme circa la situazione di gravissimo sfruttamento e quindi farli ritenere corresponsabili.

Le parti civili, rappresentanti le vittime, avevano contestato l’assoluzione degli imprenditori, chiedendo una condanna che riconoscesse una dimensione più ampia della responsabilità nell’organizzazione dello sfruttamento. Nel primo grado di giudizio, però, il quadro accusatorio aveva trovato accoglimento soprattutto nei confronti dei caporali, con una sentenza del 2017 che in italia aveva segnato l’introduzione della nozione di riduzione in schiavitù per la prima volta in modo esplicito.

La conferma della cassazione rappresenta una tappa decisiva, che mantiene ferma la responsabilità degli intermediari mentre esclude quella degli imprenditori. La complessità del caso e la lunga durata del processo riflettono le difficoltà delle indagini su fenomeni di sfruttamento del lavoro migrante, soprattutto quando emergono situazioni di subdola coercizione non direttamente fisica.

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