Giacomo Lo Surdo, ex capo ultras di Torino, ha patteggiato una pena di tre anni e mezzo di carcere più tre anni di libertà vigilata. Con questa condanna si chiude una lunga vicenda giudiziaria legata a un’inchiesta che ha portato alla luce le infiltrazioni della ’ndrangheta in Piemonte. L’indagine ha svelato legami stretti tra criminalità organizzata, sindacati e mondo ultras, rivelando una rete di affari e pressioni che va ben oltre il calcio.
Tre anni e mezzo per Lo Surdo: le accuse di mafia a Torino
Questa mattina, davanti al giudice Ombretta Vanini, Giacomo Lo Surdo, 44 anni, noto per essere stato il leader degli “Arditi”, gruppo ultras della Juventus, ha scelto di patteggiare. La pena è di tre anni e mezzo di carcere, a cui si aggiungono tre anni di libertà vigilata per controllare il suo comportamento dopo la detenzione.
La sua posizione si era staccata dal maxi processo che coinvolge molti imputati legati alla ’ndrangheta e ai sindacati nel Torinese. Le accuse più pesanti per Lo Surdo riguardano l’associazione mafiosa, con legami che risalgono al 2003 fino al 2012, all’interno di un’organizzazione guidata dai fratelli Cosimo Crea. Oltre a questo, è stato contestato per due episodi di estorsione.
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L’indagine ha evidenziato come il tifo organizzato fosse solo un pezzo di un sistema illecito più ampio, mostrando che l’attività di Lo Surdo non era isolata, ma inserita in una rete criminale ben strutturata.
’Ndrangheta, sindacati e ultras: la rete scoperta in Piemonte
L’inchiesta ha preso il via da un approfondito esame dei rapporti tra ’ndrangheta e sindacati piemontesi, in particolare dentro la Filca-Cisl, che si è costituita parte civile. Le accuse vanno dall’associazione mafiosa armata a estorsioni consumate e tentate, fino a ricettazione e detenzione illegale di armi.
Le attività criminali si sarebbero diffuse in diverse zone della cintura torinese, come Moncalieri e Carmagnola. I magistrati Mario Bendoni, Paolo Toso e Marco Sanini hanno ricostruito una struttura che supera i confini tradizionali della mafia meridionale, con solide basi in Piemonte.
Questo processo ha fatto luce su come la ’ndrangheta abbia infilato le sue radici in settori economici e sociali lontani dalla sua area d’origine, usando anche sindacati e movimenti ultras come strumenti di potere e intimidazione.
Maxi processo in arrivo: pesanti richieste di pena
Il procedimento principale riprenderà a Torino il 18 settembre, con l’esame di figure chiave dell’inchiesta. Tra questi spicca Francesco D’Onofrio, ritenuto il capo della ’ndrangheta piemontese, per cui la procura chiede oltre 12 anni di carcere. La difesa respinge con forza tutte le accuse.
Domenico Ceravolo, ex sindacalista Cisl e presunto tramite tra boss e istituzioni, rischia 10 anni. Le richieste comprendono anche 8 anni e 4 mesi per Rocco Costa, 3 anni e 8 mesi per Antonio Serratore e quasi 9 anni per Claudio Russo.
In totale, le pene richieste superano i 38 anni di carcere, un segnale chiaro della portata del fenomeno criminale scoperto in Piemonte, che coinvolge diversi ambiti della vita pubblica locale.
Ultras e ’Ndrangheta: un legame che va oltre lo stadio
Il caso di Lo Surdo mostra come il mondo ultras si sia intrecciato con interessi mafiosi. Negli ultimi anni le cronache avevano già indicato che la curva sud della Juventus non era solo tifo, ma parte di un sistema più complesso.
Le indagini hanno dimostrato che i vertici calabresi della ’ndrangheta impartivano ordini diretti, gestendo parallelamente biglietti, merchandising e altri affari legati a quella cerchia ultras. Così è nato un sistema di intimidazione capace di generare guadagni e consolidare l’influenza.
Il ruolo di Lo Surdo si muove quindi tra sport e criminalità, in un contesto dove potere e violenza si mescolano, coinvolgendo parti della società civile lontane dallo stadio.
Patteggiamento a Torino: una scelta strategica
Il tribunale di Torino ha accettato il patteggiamento proposto da Lo Surdo, mettendo fine a una vicenda giudiziaria lunga e logorante. La scelta gli ha permesso uno sconto di pena, ma la condanna resta pesante e riconosce il suo ruolo all’interno di un sistema criminale ampio.
I tre anni di libertà vigilata, dopo la detenzione, indicano la necessità di tenere sotto controllo il suo comportamento, segno che la sua presenza nelle reti criminali è stata significativa.
Questo verdetto non riguarda solo lui: mette a nudo un sistema in cui la criminalità organizzata ha radici profonde anche nel Nord Italia, usando metodi e settori diversi rispetto alle mafie tradizionali.
Il Nord sotto assedio: la ’Ndrangheta penetra ovunque
Il caso Lo Surdo entra in un contesto in cui la ’ndrangheta ha messo radici in Piemonte, infiltrandosi nell’edilizia, nei sindacati, nel commercio e persino nel mondo ultras, un ambiente che fino a poco tempo fa sembrava distante da queste realtà.
Negli ultimi anni, una serie di inchieste ha portato alla luce questa rete di interessi criminali diffusa e radicata. Le procure sono all’erta, ma la società e le istituzioni devono capire che anche fenomeni apparentemente marginali nascondono problemi ben più grandi.
L’arresto e la condanna di figure come Lo Surdo sono la prova concreta di questa penetrazione, che ha superato confini geografici e culturali, adottando metodi condivisi per esercitare potere e controllo.
Il processo torinese proseguirà con altri imputati, mentre il monitoraggio sulle figure emerse resta fondamentale per rompere le dinamiche criminali che hanno segnato alcune zone del Piemonte. Lo Surdo dovrà scontare la pena lontano dal mondo ultras che un tempo guidava, lasciando dietro di sé uno scenario segnato dall’ombra della ’ndrangheta.