La Corte europea dei diritti dell’uomo ha fissato un importante precedente respingendo il ricorso di 17 migranti che accusavano l’Italia di averli lasciati in Libia durante un salvataggio in mare risalente al 2017. Il caso solleva questioni delicate sulle responsabilità nei soccorsi in mare e sulle condizioni dei migranti nelle zone di confine marittimo tra Italia e Libia, al centro di numerose polemiche e impegni diplomatici negli ultimi anni.
I fatti: il salvataggio in mare e la denuncia dei migranti
Nel novembre 2017, circa 150 persone stipate su un gommone tentarono la traversata dal Nord Africa verso l’Europa. Durante la navigazione, emersero situazioni di pericolo che attivarono il Centro di Coordinamento di soccorso marittimo di Roma. Da qui partì la chiamata per chiedere supporto a diverse imbarcazioni nelle vicinanze, tra cui la nave libica Ras Jadir. Quest’ultima avrebbe recuperato circa 45 persone, tra cui due dei 17 migranti ricorrenti, tutti originari di Nigeria e Ghana.
I migranti denunciavano di aver subito maltrattamenti fin dal momento del recupero. Avrebbero raccontato di essere stati legati, picchiati e minacciati durante il trasferimento nel campo di detenzione di Tajura, noto per le condizioni durissime. Secondo il loro racconto, le violenze non si sarebbero fermate una volta arrivati in Libia, dove sono stati rinchiusi senza garanzie. La vicenda ha alimentato ulteriormente il dibattito sulle responsabilità europee nei confronti dei migranti spesso lasciati nelle mani delle autorità libiche.
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Le accuse principali dei migranti
Le denunce principali riguardano:
- Maltrattamenti fisici e psicologici
- Violazioni dei diritti fondamentali nel centro di detenzione di Tajura
- Responsabilità indiretta dell’Italia nel respingimento forzato
Il ricorso alla cedu e le accuse contro l’italia
Nel maggio 2018, i diciassette migranti presentarono ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sostenendo che l’Italia si fosse resa responsabile di un respingimento indiretto, affidando il salvataggio in mare a autorità libiche che li avrebbero riportati in condizioni di pericolo. Secondo i ricorrenti, questo avrebbe violato il divieto di respingimento previsto dal diritto internazionale, mettendo a rischio la loro vita e innescando una serie di vessazioni nel centro di detenzione.
Due dei migranti hanno addirittura denunciato la perdita dei rispettivi figli durante l’affondamento del gommone, causato dall’arrivo dell’imbarcazione della guardia costiera libica. La questione dell’affondamento e delle vittime innocenti ha intensificato l’attenzione sulla zona di soccorso, spesso teatro di operazioni complesse e sotto scrutinio internazionale. La tipologia di salvataggio “per procura” solleva interrogativi sulle procedure adottate in acque internazionali nelle aree di confine tra nazioni.
La decisione della cedu e la questione della giurisdizione
L’11 febbraio 2025, la Cedu ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando che il salvataggio è avvenuto in acque internazionali e che la zona non risultava sotto il controllo effettivo dell’Italia in quel momento. La corte ha dunque respinto l’idea che Roma potesse essere ritenuta responsabile per le azioni della guardia costiera libica, sottolineando l’assenza di giurisdizione diretta sulle operazioni svolte dalla Ras Jadir.
I limiti evidenziati dalla sentenza
La decisione mette anche in luce i limiti del sistema di protezione dei diritti umani nelle aree marittime complesse, dove le responsabilità si intrecciano tra stati diversi. La sentenza conferma quanto sia difficile identificare il confine tra azione diretta e indiretta di uno Stato nei aiuti o interventi marittimi. La situazione resta critica per i migranti che si trovano in Libia, paese segnato da instabilità politica e gravi problemi umanitari.
Il contesto internazionale e gli sviluppi sul soccorso ai migranti
Il caso si inserisce in un contesto in cui l’Italia mantiene un ruolo chiave nella gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo, spesso coordinandosi con organismi europei e paesi terzi. La cooperazione con la Libia, in particolare, è stata oggetto di forti critiche a livello internazionale a causa delle condizioni dei detenuti e dei rischi per i diritti umani.
Nel tempo, l’Italia ha variato le strategie di intervento in mare, alternando operazioni di salvataggio dirette a sostegno di accordi con le autorità libiche per limitare le partenze via mare. Mentre da un lato aumenta la pressione sulle rotte mediterranee, cresce anche il numero di procedimenti giudiziari e denunce sulle pratiche adottate durante gli interventi.
Il dibattito resta aperto su come garantire la sicurezza e la dignità di chi tenta la traversata via mare senza compromettere le sovranità nazionali e rispettare i trattati internazionali. Il percorso delle sentenze della Cedu e di altre corti internazionali peserà sui futuri assetti normativi e operativi, forzando a ripensare le modalità di intervento in questa area sensibile.