Negli Stati Uniti, a pochi mesi dal suo insediamento come 47mo presidente, donald trump si ritrova coinvolto in un conflitto che segna un punto di svolta nella sua gestione politica e militare. Il rapporto tra la sua visione isolazionista e le pressioni internazionali ha condotto a uno scenario complesso, dove alleanze e decisioni strategiche si intrecciano con la realtà sul campo. Il contesto mediorientale e le mosse di israele sono al centro di questo importante capitolo della cronaca internazionale.
La posizione di trump sull’uso delle forze armate americane
Fin dall’ingresso in politica, trump ha mostrato una netta contrarietà all’impiego delle truppe statunitensi in missioni estere di grande portata, specie in zone di crisi. La sua linea difende un uso delle forze armate rivolto prima di tutto alla sicurezza interna e ai confini nazionali, piuttosto che alla proiezione del potere militare per affermare valori occidentali fuori dai confini americani. Questa scelta segna un distacco netto dal tradizionale ruolo da “gendarme globale” che gli Stati Uniti hanno spesso rivestito.
Nel marzo 2025, mentre nella situation room venivano prese decisioni su come sostenere israele, contemporaneamente a los angeles venivano dispiegati due mila soldati della guardia nazionale per incrementare i controlli contro i lavoratori senza permesso di soggiorno. Questo doppio fronte dimostra dove trump concentra le sue priorità: che si tratti di conflitti esteri o di questioni migratorie, l’attenzione resta fortemente orientata verso la gestione interna.
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Trump ha mostrato spesso uno stile spavaldo nelle dichiarazioni, ma la sua posizione nei fatti cerca di evitare un coinvolgimento militare diretto in conflitti esterni, disciplina questa che ha mantenuto sin dall’inizio del suo percorso politico.
Il confronto con gli esponenti neoconservatori e la realtà delle alleanze
Durante la campagna repubblicana del 2016, trump aveva critico apertamente interventi militari fallimentari come quelli in iraq o afghanistan, denunciando l’inganno sulle armi di distruzione di massa come giustificazione per l’invasione. Questo atteggiamento ha segnato il suo distacco dagli interventisti neoconservatori, tra cui figure come john bolton, che arrivò a far parte del suo staff per poi essere allontanato con decisione.
La sua avversione per questo gruppo politico si è estesa anche a figure della destra repubblicana tradizionale, come liz cheney, figlia del vice presidente dick cheney noto per quel tipo di politica bellicista.
Nonostante questi contrasti, la relazione con benjamin netanyahu si presenta complessa. Pur vantando il premier israeliano una cultura e legami profondi con gli ambienti politici americani, il rapporto con trump non è stato privo di tensioni. Nel 2019, netanyahu fu veloce a riconoscere la vittoria di joe biden, un gesto che per trump rappresentò un segnale di scarsa lealtà. Questo spiega anche perché durante la sua visita mediorientale trump non si recò a gerusalemme, preferendo concentrarsi su riyadh e altre capitali del golfo.
La strategia di netanyahu e l’intervento degli stati uniti nel conflitto iraniano
L’offensiva lanciata da netanyahu contro l’iran ha innescato un passaggio cruciale nel conflitto mediorientale. Il primo ministro israeliano ha agito in modo autonomo creando una dinamica difficile da gestire per trump, che finora ha mostrato più interesse negli affari con paesi come l’Arabia Saudita rispetto al sostegno militare diretto a israele.
Con l’escalation del conflitto, l’intervento americano diventa tuttavia fondamentale. Gli Stati Uniti possono colpire efficacemente il programma nucleare iraniano tramite la loro aviazione, un’azione impensabile senza il supporto aereo statunitense. Inoltre, israele ha bisogno di ricostituire le riserve di mezzi di difesa aerea, ormai quasi esaurite, per proteggersi dai missili e droni iraniani. Lo sottolinea anche il washington post in recenti articoli.
Per trump, subire la pressione di giocare un ruolo da gregario in questa partita non è previsto a lungo termine. Sta quindi valutando quando intervenire per assumere una posizione più centrale, compatibile con la sua immagine politica e le aspettative del suo elettorato, che vede nel principio di “america first” una linea guida fondamentale.
Implicazioni energetiche e possibili scenari di negoziato
Nel calcolo delle mosse in medio oriente possono entrare anche le risorse energetiche dell’area, in particolare gas e petrolio, tra i più ricchi e qualitativamente superiori al greggio e ai materiali estratti negli Stati Uniti. Questi carburanti sono spesso indirizzati verso mercati come la cina, che rappresentano uno snodo strategico globale.
Pur sembrando una questione remota, lo sfruttamento di queste risorse potrebbe diventare un argomento su cui fondare trattative future, se e quando si aprirà un processo negoziale tra le parti in conflitto. Fino ad ora, l’ipotesi di una nuova fase di dialogo rimane difficile da immaginare, ma la presenza di queste riserve non va trascurata come leva politica.
Trump, prima dell’attacco israeliano che ha cambiato l’equilibrio della regione, aveva espresso interesse proprio per l’area e il suo potenziale energetico, soggetto che potrebbe riaffiorare a breve nelle strategie diplomatiche.
La nuova fase della crisi mediorientale testimonia il mutare del ruolo americano e il complicato intreccio tra politica interna, alleanze tradizionali e interessi economici. Da washington a gerusalemme, da riyadh a teheran, le decisioni prese ora peseranno sulle dinamiche future nella regione e oltre.