La guerra tra israele e iran e il ruolo degli Stati Uniti continuano a far discutere a livello internazionale. Massimo d’alema, ex presidente del consiglio, ha espresso alcune riflessioni durante una trasmissione televisiva su La7, mettendo in luce le incertezze sull’intervento americano e sottolineando le ripercussioni politiche e strategiche di questo scontro nel medio oriente. Le sue parole si concentrano anche sui costi del conflitto, le dinamiche diplomatiche e la condizione in cui si trova la politica italiana.
Sulle incertezze dell’intervento degli Stati Uniti nella guerra israele-iran
D’alema ha evidenziato come, anche a livello istituzionale negli Stati Uniti, non sia chiaro se si deciderà di combattere al fianco di israele. L’ex premier ha citato dichiarazioni attribuite all’ex presidente Trump, che ha ammesso la mancanza di certezze sul da farsi. Questo punto sottolinea l’instabilità della posizione americana, in un contesto già teso e complesso.
La questione di un possibile coinvolgimento diretto degli Usa nella guerra riflette non solo difficoltà politiche interne, ma anche calcoli strategici incerti. La prudenza americana, almeno pubblicamente, si accompagna alla necessità di valutare rischi e impatti di un eventuale escalation militare. Questo indebolisce la chiarezza dell’alleanza e rende più difficile capire gli sviluppi futuri del conflitto.
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Nel discorso di d’alema emerge la necessità che si fermino le ostilità, vista come una priorità per l’equilibrio internazionale. Secondo lui, l’interesse dell’Europa e del mondo sarebbe quello di evitare un prolungarsi della guerra, che rischierebbe di travolgere una vasta area nello scenario medio orientale con conseguenze pesanti anche per il mercato energetico globale.
La responsabilità di trump e il negoziato fallito con l’iran
L’ex presidente del consiglio insiste sul fatto che un negoziato importante con l’iran era stato portato avanti in passato, riuscendo a convincere Teheran a sospendere lo sviluppo della bomba nucleare. Un accordo che aveva avuto una certa efficacia fino a quando, nelle parole di d’alema, Trump l’ha sabotato. Questo atto ha aperto la strada a una nuova escalation di tensioni tra iran, israele e gli stati uniti.
Secondo d’alema, la decisione di Trump rappresenta una responsabilità grave, perché ha compromesso la possibilità di mantenere quel fragile equilibrio. La questione nucleare mediorientale resta centrale proprio per questo motivo. Se l’iran avesse mantenuto il divieto di costruire armi atomiche, è probabile che la situazione non sarebbe degenerata in conflitto aperto.
Inoltre, d’alema fa un paragone con la corea del nord: anche lì, la presenza di armi nucleari ha creato uno stato di “equilibrio di paura” che scoraggia intrusioni militari esterne. A suo modo di vedere, molti paesi guardano a questa condizione come un modo per evitare di essere attaccati. Questo porta a una riflessione sulle conseguenze della corsa agli armamenti atomici in più aree instabili.
L’illusione delle guerre contro regimi non democratici e gli insegnamenti dall’afghanistan
D’alema sottolinea che combattere guerre contro paesi che non sono democrazie appare un esercizio irrealistico e senza sbocchi positivi. La storia recente, osserva, dimostra che sotto la pressione delle bombe spesso emergono solo posizioni più radicali dalle popolazioni coinvolte o dai governi esistenti.
Non bastano le armi per cambiare un regime. La vera trasformazione nasce da mutamenti sociali interni capaci di opporsi alle violenze e di aprire spazi di dialogo. Il caso afgano è esemplare in questo senso. Dopo anni di intervento militare, l’esito non è stato quello sperato e il ritorno al regime talebano mostra i limiti di ogni soluzione che prescinda dai reali cambiamenti nella società.
Questo ragionamento complica la strada per chi considera questa guerra come una via per imporre valori democratici o per difendersi contro il terrorismo con misure militari. Gli effetti di un’escalation militare potrebbero infatti favorire solo le frange più estreme e compromettere le probabilità di una pace duratura.
Il ruolo dell’europa, le divisioni interne e le sfide energetiche
L’Europa al momento risulta divisa e fragile di fronte alla crisi israele-iran. D’alema evidenzia che manca una chiara strategia in grado di fermare le forze che ne impediscono il negoziato, citando in particolare israele come ostacolo principale. Netanyahu avrebbe voluto fermare i contatti tra gli Stati Uniti e l’iran con un attacco militare.
Da questa analisi emerge una debolezza politica europea che rischia di tradursi in un danno per i suoi cittadini, su più livelli. Non solo per la questione sicurezza ma anche per gli approvvigionamenti energetici. L’instabilità nella regione potrebbe infatti avere effetti immediati sulle forniture di gas e petrolio, con risvolti economici concreti per economie già sotto pressione.
L’ex premier critica anche l’eredità del trumpismo e del populismo, che tendono a creare confusione e ostacolare rapporti più stabili. Le posizioni sovraniste presentano affinità ideologiche, ma finiscono per scontrarsi quando devono affrontare responsabilità di governo, creando una situazione di instabilità politica che non rassicura i partner internazionali.
La censura informativa su gaza e i livelli di violenza raggiunti nel conflitto
Un punto di particolare attenzione riguarda la situazione a Gaza. D’alema denuncia una censura informativa che impedisce una visione completa e trasparente di quanto accade nella striscia. Questa mancanza di dati e racconti diretti limita la capacità di comprendere l’entità della crisi umanitaria.
Il discorso si concentra anche sulla dimensione della violenza esercitata da israele. Sono stati raggiunti livelli estremi, che secondo d’alema si possono definire barbarie. Questi eventi sollevano domande sull’adeguatezza delle azioni militari e sulla sofferenza delle popolazioni civili. La complessità del conflitto si riflette quindi anche nel modo in cui viene raccontato e rappresentato all’estero, influenzando la mobilitazione dell’opinione pubblica.
D’alema sulla politica italiana: governo meloni, opposizione e prospettive di premierato
D’alema ha toccato poi il tema interno italiano, commentando il consenso ottenuto dal governo guidato da Giorgia Meloni. Per lui, il vero problema non è tanto la presenza di un esecutivo di destra quanto la scarsa partecipazione degli elettori che scelgono di non andare a votare.
Il consenso del governo risulterebbe infatti il più basso nella storia repubblicana, un dato che mette in discussione la reale rappresentatività dell’attuale leadership parlamentare. D’alema punta il dito anche contro l’opposizione, giudicata divisa e incapace di presentarsi unita davanti ai cittadini. Secondo lui, un campo compatto potrebbe raccogliere più consensi e funzionare come freno.
Sull’ipotesi di un premierato, proposta ricorrente in diversi contesti politici, esprime scetticismo. Ritiene che un modello di questo tipo non avrebbe la strada spianata e sarebbe molto probabilmente bocciato da un referendum popolare. D’alema mette in dubbio il ruolo attuale del governo nelle questioni chiave di politica estera, sicurezza e diritti, considerandolo poco attivo o poco efficace.
D’alema e il futuro personale: fuori dal parlamento, dentro il dialogo pubblico
Infine, l’ex presidente del consiglio è stato interrogato sulla sua eventuale ripresa di attività politica formalizzata in parlamento o all’interno di partiti. La risposta è stata netta: ha chiuso con quel tipo di impegno.
Nonostante ciò, non rinuncia a comunicare le proprie idee, scrivere e condividere pensieri. Per d’alema, questa scelta rappresenta un aspetto naturale della sua natura, qualcosa che rimane viva anche senza cariche ufficiali o istituzionali. Il confronto con la realtà politica resta quindi aperto ma in una forma diversa dal passato.