Nel sud-ovest della Sardegna, l’area di Ingurtosu, parte del Parco Geominerario storico e ambientale tutelato dall’Unesco, sta vivendo una fase di recupero ambientale grazie a un progetto che sfrutta batteri e piante locali per eliminare l’inquinamento da metalli pesanti lasciato dalle attività minerarie concluse nella seconda metà del Novecento. L’iniziativa, nota come Return, coinvolge 26 enti e università ed è finanziata dal Pnrr, con l’obiettivo di rigenerare i terreni contaminati attraverso metodologie naturali che non prevedono interventi invasivi.
L’inquinamento da metalli pesanti e il degrado ambientale a Ingurtosu
La storia mineraria di Ingurtosu ha lasciato un’eredità pesante: terreni fortemente contaminati da metalli come piombo e zinco derivati dalle estrazioni minerarie. Queste sostanze hanno modificato profondamente la qualità del suolo e la biodiversità dell’area, causando un degrado ambientale che si è protratto per decenni. Le lavorazioni minerarie si sono dimezzate nella seconda metà del ’900, ma gli effetti sull’ambiente si fanno ancora sentire. Il territorio, inserito nel primo parco geominerario riconosciuto a livello mondiale, rappresenta una sfida ambientale rilevante e richiede interventi mirati per ricostruire ecosistemi danneggiati.
Dal 2011, i ricercatori dell’Enea, in collaborazione con l’Università di Cagliari, hanno monitorato la presenza di metalli nel terreno per rilevare i cambiamenti legati alla vegetazione spontanea e all’attività microbica. L’obiettivo era trovare metodi capaci di ridurre la concentrazione degli inquinanti, sfruttando proprio la vita biologica del suolo, testando tecniche di fitorisanamento, cioè l’impiego di piante che possono assorbire o stabilizzare i metalli pesanti insieme a microrganismi.
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Il ruolo dei batteri nativi e la bioaugmentation per il recupero del suolo
Nel progetto Return, la bioaugmentation è il fulcro dell’approccio adottato dagli scienziati. Questa tecnica prevede l’introduzione di ceppi microbici selezionati, prelevati dallo stesso ambiente minerario contaminato, con lo scopo di favorire la degradazione o la trasformazione degli inquinanti. Nel caso di Ingurtosu, sono stati isolati 11 ceppi batterici capaci di convivere in terreni ricchi di metalli pesanti, resistendo alle loro tossicità e producendo sostanze che stimolano la crescita delle piante.
Questi batteri non sono semplici abitanti del terreno, ma attori chiave nel migliorare la qualità del suolo. Provvedono a stabilizzare il terreno, ridurre la mobilità dei metalli e aumentare la biodiversità microbica dell’area. Queste azioni, combinate con i vegetali autoctoni, migliorano le condizioni di vita per altre forme biologiche, aiutando a ricostruire un equilibrio ecologico danneggiato decenni fa.
Piante di elicriso e batteri che aiutano a immobilizzare i metalli pesanti
L’elicriso, una pianta autoctona della Sardegna, è stata scelta come specie di riferimento per sostenere la bonifica. Questa pianta riesce a sopravvivere nelle condizioni difficili del sito contaminato, soprattutto se supportata dai batteri nativi. Questi microrganismi infatti producono nutrienti e molecole che rendono il terreno più adatto alla crescita vegetale. Senza questa collaborazione invisibile, molte piante faticano ad attecchire in terreni così inquinati.
Va detto che i metalli pesanti non possono essere degradati, perché sono elementi chimici stabili. Ma i batteri li immobilizzano, riducendo il loro movimento nel suolo e la diffusione nei sistemi naturali come acqua e piante. Garantendo la stabilità dei metalli, il terreno diventa meno tossico e più accogliente per le specie vegetali e animali. Questo processo di rigenerazione naturale apre la strada a una possibile rinascita ambientale in una zona che ha pagato un prezzo alto alla storia mineraria.
Risultati e metodologie alternative di bonifica naturale
I risultati ottenuti da Enea e dagli enti coinvolti mostrano che questi metodi di bonifica naturale sono in grado di risanare aree vaste e inquinate senza ricorrere a scavi o all’uso di sostanze chimiche dannose. L’applicazione di piante autoctone e batteri autoctoni rappresenta una strada concreta per il futuro della tutela ambientale nelle regioni colpite da attività estrattive.