Il caso di un pubblico ministero milanese finito sotto processo per aver bloccato un’indagine su revenge porn scuote il mondo della giustizia e dello sport. Dietro l’apparente errore si nasconde una strategia consapevole per tutelare Demba Seck, calciatore all’epoca impegnato nel Torino Fc. La sentenza emessa dal giudice per le indagini preliminari di Milano, Luigi Iannelli, dettaglia i fatti e le motivazioni che hanno portato alla condanna del pm Enzo Bucarelli. Questa vicenda getta una luce inquietante sulle dinamiche che possono influenzare indagini sensibili e mette in discussione la credibilità degli organi investigativi.
Il contesto dell’indagine per revenge porn su demba seck
La vicenda prende avvio nel febbraio del 2023, quando Veronica Garbolino, ex fidanzata di Demba Seck, si presenta in procura a Milano con una denuncia. Racconta di esser stata ripresa, senza il suo consenso, mentre si trovava in momenti di intimità con Seck. I video, diffusi tramite WhatsApp, erano stati girati durante la relazione e inoltrati a più persone, tra cui un compagno di squadra del calciatore. La scoperta di queste registrazioni arriva solo dopo la fine della loro relazione, creando un danno enorme all’ex ragazza, che lavorava in una discoteca ben nota nel torinese.
L’indagine viene affidata alla procuratrice aggiunta Tiziana Siciliano e alla pm Giancarla Serafini. Il caso evidenzia la delicatezza e la riservatezza che dovrebbero caratterizzare simili procedimenti. Ma già dai primi momenti emergono anomalie nella conduzione delle operazioni, che avrebbero potuto compromettere la raccolta delle prove cruciali e, di riflesso, l’esito dell’intera inchiesta.
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Le azioni contestate al pm enzo bucarelli durante le indagini
Secondo quanto accertato dagli investigatori della guardia di finanza e confermato dal giudice, il pm Bucarelli ha adottato una condotta che supera ogni confine della correttezza professionale. Partecipando direttamente alla perquisizione del telefono di Seck, non solo non ha disposto il sequestro del dispositivo ma ha cancellato personalmente i video compromettenti, eliminando così la prova centrale del reato contestato.
La sera antecedente all’azione giudiziaria, Bucarelli contatta il team manager del Torino Fc, Marco Pellegri, per avvisarlo dell’arrivo della polizia allo stadio Filadelfia. Tale comunicazione è stata giudicata dal tribunale come un’intromissione indebita nelle indagini e un tentativo evidente di agevolare l’indagato. In più, il verbale della perquisizione risulta costruito in modo da mascherare l’inattività investigativa e impedire che si creasse una base solida per procedere.
Questa serie di azioni dimostra un intento deliberato di ostacolare la formazione delle prove, non una svista o un errore formale. Il pm era infatti il responsabile diretto delle indagini e aveva il dovere di garantirne la correttezza e la trasparenza, non di proteggere il calciatore.
Il profilo del pm bocciato dal tribunale e le implicazioni per la giustizia
La sentenza pronunciata dal giudice Iannelli ha condannato Enzo Bucarelli a un anno, nove mesi e dieci giorni di reclusione, con pena sospesa e senza iscrizione nel casellario giudiziario. Vengono riconosciute alcune attenuanti, legate all’atteggiamento collaborativo tenuto durante il processo, come la disponibilità all’interrogatorio e il comportamento in aula. Tuttavia, il tribunale ha sottolineato la gravità dell’abuso di potere e della violazione della funzione pubblica.
Questa vicenda compromette l’immagine della magistratura, alimentando dubbi sul modo in cui certi soggetti possano contare su protezioni informali quando sono coinvolti personaggi noti, come sportivi di vertice. Demba Seck, infatti, non è solo un atleta ma un volto pubblico che rappresenta la propria squadra e ha un interesse diretto a tutelare la propria reputazione.
La scottante realtà sollevata dal caso è che un funzionario chiamato a garantire il diritto ha preferito agire in modo tale da impedire che il procedimento producesse conseguenze per il sospettato. Il rischio è che questo comportamento alimenti un precedente pericoloso, minando la fiducia dei cittadini verso le istituzioni.
Le conseguenze per la vittima e il messaggio al sistema giudiziario
Per Veronica Garbolino l’ostacolo creato nelle indagini rappresenta una sconfitta personale e legale. La sua denuncia ha accesso a una materia delicata e complessa, dove la tutela della privacy e la gravità dello sfruttamento mediatico si intrecciano. Quando chi dovrebbe proteggerla sovverte il processo, la richiesta di giustizia rimane insoddisfatta.
La vicenda mette in luce la fragilità di chi decide di denunciare abusi legati a contenuti intimi diffusi senza consenso. Anche nel 2025, il sistema giudiziario si scontra con la pressione di casi che coinvolgono figure pubbliche e con il rischio di risvolti mediatici, che possono influire sulle scelte di chi indaga. Non è solo un caso isolato: richiama la necessità di garantire a ogni persona, indipendentemente dal nome o dalla professione, l’accesso a un processo trasparente e completo.
Il segnale lasciato da questa sentenza è chiaro per chiunque abbia a che fare con denunce di revenge porn. Senza un controllo rigoroso di chi svolge funzioni decisive, e senza la cultura del rispetto della legge prima di ogni cosa, la tutela delle vittime rischia di diventare solo un’espressione formale. Questa vicenda rimane una ferita aperta che testimonia le difficoltà ancora vive nel sistema italiano.