Minacce in aula e disturbi mentali: il caso del 46enne imputato per stalking a torino

Minacce in aula e disturbi mentali: il caso del 46enne imputato per stalking a torino

Un uomo con disturbo schizoaffettivo bipolare minaccia il presidente della Corte d’Appello di Torino durante un processo per stalking contro due dottoresse del servizio sanitario pubblico, sollevando dubbi sulla gestione giudiziaria dei disturbi mentali.
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Un imputato con disturbi mentali gravi ha minacciato il presidente della Corte d’Appello di Torino durante un’udienza per stalking, evidenziando le difficoltà del sistema giudiziario nel gestire casi che coinvolgono malattia mentale e responsabilità penale. - Gaeta.it

Un episodio di tensione ha animato la Corte d’Appello di Torino il 13 maggio 2025. Un uomo di 46 anni, già in carcere per un procedimento legato a stalking, ha manifestato in aula una crisi violenta. Ha rivolto minacce pesanti al presidente del tribunale e agli astanti, segnando un momento surreale che ha richiesto l’allontanamento forzato dall’aula. La vicenda apre riflessioni sulla gestione in ambito giudiziario delle persone con disturbi mentali gravi, soprattutto quando il reato si intreccia con la malattia psichica. È quanto emerso nel corso del processo per atti persecutori che il soggetto imputato avrebbe commesso nei confronti di due dottoresse del servizio sanitario pubblico.

La scena in aula: minacce e tensione durante l’udienza a torino

L’udienza del 13 maggio ha preso una piega inaspettata a causa della reazione dell’imputato. Durante la discussione, l’uomo ha iniziato a urlare frasi minacciose e provocatorie, come “Io vi faccio saltare, metto una bomba nucleare”. Questi toni hanno costretto il presidente a interrompere la seduta per garantire l’ordine e la sicurezza. Prima di essere portato via, l’uomo si è rivolto al giudice con un’affermazione diretta: “Tu non sei Dio, sei solo un uomo”. La risposta del presidente è stata ferma e precisa: “È vero, ma devo celebrare l’udienza e così non è possibile”. L’episodio ha sottolineato la complessità di gestire imputati che manifestano disturbi psichiatrici in aula, mettendo alla prova le procedure giudiziarie standard.

Detenzione e instabilità emotiva

Il fatto che l’uomo fosse detenuto al momento dell’udienza indica che si trovava già sotto espiazione di una pena o in regime di custodia cautelare, tuttavia l’aggressività verbale ha reso evidente un quadro di instabilità emotiva e comportamentale.

Il profilo psichiatrico e gli atti persecutori verso le dottoresse

L’imputato era sotto accusa per atti persecutori contro due dottoresse che nel 2023 lo avevano curato in strutture psichiatriche pubbliche a Torino. Una delle vittime ha ricevuto ben cinque chiamate in un solo giorno, con messaggi e toni ripetutamente ossessivi e minacciosi. Questi episodi hanno innescato la denuncia e l’apertura del procedimento penale.

Una consulenza psichiatrica ha evidenziato che l’uomo soffre di un disturbo schizoaffettivo bipolare grave, con elementi di disturbo narcisistico di personalità. Questo quadro clinico indica un disturbo complesso, che combina sintomi psicotici e alterazioni dell’umore, mescolati a tratti narcisistici che possono complicare il rapporto con gli altri e comportare atti persecutori. Nonostante questa situazione, la corte ha ritenuto necessario procedere con il giudizio penale, arrivando a condannare l’imputato a un anno e cinque mesi di reclusione.

Interrogativi su diagnosi e sistema giudiziario

Questa decisione solleva interrogativi sull’interazione tra diagnosi psichiatrica e sistema giudiziario, soprattutto nel valutare se le misure detentive sono adeguate a persone con problemi mentali così delicati.

La sfida della giustizia nel caso di persone con disturbi mentali gravi

Il tribunale di Torino si trova davanti a un problema frequente ma ancora poco affrontato in modo organico: come rispondere a chi commette reati mentre convive con malattie mentali importanti? Spesso queste persone finiscono nelle aule giudiziarie come imputati ordinari, senza che vengano considerate appieno le caratteristiche psichiche che influenzano il loro comportamento.

Questo caso dimostra la difficoltà di separare la responsabilità penale dalla necessità di cure. La corte ha svolto udienza e condannato, ma resta la questione se sia sufficiente l’intervento giudiziario o se serva un percorso che coinvolga anche enti sanitari e servizi sociali. Serve un approccio multidisciplinare che riconosca la gravità della malattia e il rischio per le vittime.

Impatto sulle vittime e limiti della giustizia

Per le due dottoresse, coinvolte direttamente, la persecuzione ha rappresentato un’esperienza traumatica, fatta di chiamate insistenti e minacce. Gli operatori giudiziari e le forze dell’ordine hanno fatto da barriera tra vittime, carnefice e pubblico, evitando che la situazione degenerasse oltre la parola. Qui si intrecciano i limiti della giustizia penale e la necessità di meccanismi di protezione efficaci anche per chi soffre di disturbi psichici.

La riflessione su questo tema resta aperta, soprattutto su come il sistema sbaglierebbe a trattare solo reati o solo malattia, dimenticando che sono le persone, in tutte le loro fragilità, a trovarsi al centro delle vicende processuali.

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