L’estrazione mineraria nei fondali oceanici si è rivelata un tema cruciale per l’ambiente e le risorse naturali. Un esperimento condotto nel 1979 nella regione di Clarion-Clipperton ha fornito dati fondamentali sull’impatto a lungo termine di queste attività. Uno studio recente pubblicato su Nature, frutto della collaborazione tra il National Oceanography Centre e il Natural History Museum di Londra, ripercorre i risultati di quell’intervento e ne valuta gli effetti ancora presenti nel 2023. La zona è al centro dell’attenzione per l’estrazione di metalli indispensabili alle batterie moderne, ma ciò comporta rischi ambientali tutt’ora evidenti.
Il contesto dell’esperimento minerario nella zona clarion-clipperton
Nel 1979, un progetto di estrazione mineraria è stato portato avanti sul fondo del Pacifico, tra le isole Clarion e Clipperton, in un’area ricca di noduli polimetallici contenenti cobalt, nichel e manganese. L’obiettivo era testare la possibilità di recuperare queste risorse essenziali per nuovi usi industriali, soprattutto nella produzione di batterie. Quell’intervento rappresentava un sistema pionieristico per capire che impatti avrebbe avuto sul fragile ecosistema del fondale marino profondo. La zona copre migliaia di chilometri quadrati, un ambiente con biodiversità sconosciuta e sistemi biologici molto lenti nel rigenerarsi.
Un’area chiave per la transizione energetica
Questa porzione dell’oceano è rilevante a livello globale perché concentra materiali preziosi indispensabili per la transizione energetica, soprattutto nel settore dei veicoli elettrici. Era chiaro già allora che avrebbe rappresentato una fonte importante, ma i dubbi sulle ricadute ecologiche erano numerosi. La sperimentazione ha quindi offerto uno spaccato unico: un’area mineraria aperta e analizzata per decenni, mai prima di allora monitorata con così precisione e così a lungo. Da allora è stato possibile osservare con continue immersioni e rilevamenti come si sono evoluti flora e fauna marine.
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I cambiamenti dell’ecosistema marino dopo l’intervento del 1979
L’esperimento ha lasciato zone di fondo oceanico profondamente modificate e ancora oggi facilmente identificabili. Lo studioso Adrian Glover, del Museo di Storia Naturale di Londra, ha sottolineato come le tracce di quella estrazione appaiano fresche, quasi recenti, nonostante siano passati 44 anni. A differenza di molti habitat terrestri che si rigenerano in tempi umani, gli organismi abissali crescono lentamente, con ritmi biologici che fanno apparire le ferite del fondo come non rimarginate da decenni. Questa lentezza rende difficile capire con precisione come e quando l’ecosistema possa raggiungere un equilibrio simile a quello originario.
Segnali di ricolonizzazione dopo decenni
L’area mostrava una riduzione nella varietà di specie e nella densità della fauna dopo l’esperimento, con impatti visibili anche sul substrato e sui processi chimici del fondale. Un elemento interessante però, è che dopo alcuni decenni sono emersi segnali di ricolonizzazione: piccole colonie di organismi sono tornate a insediarsi nelle zone disturbate. Questo dimostra una capacità di recupero, anche se distante da un completo ripristino. Gli scienziati sanno che occorreranno almeno altrettanti anni, se non di più, prima di vedere un habitat simile a quello che esisteva prima delle attività estrattive.
Queste osservazioni forniscono indicazioni importanti per valutare ogni futura attività di mining sui fondali oceanici. Quella cicatrice evidente, con la sua lente guarigione, rappresenta un avvertimento sulle difficoltà che attendono chiunque decida di sfruttare queste zone senza interventi di massima precauzione o limitazioni di scala.
Le sfide future dell’estrazione di metalli preziosi e la tutela degli ecosistemi marini
Il mondo contemporaneo fa sempre più affidamento su metalli come nichel, cobalto, manganese e litio per alimentare batterie di ogni tipo, dai cellulari alle auto elettriche. Il ricorso all’estrazione da fondali marini come Clarion-Clipperton è dunque destinato a crescere, ma pone il dilemma sui danni irreversibili che potrebbe produrre. Per evitare danni simili a quelli del 1979 o ancor più vasti, diventa fondamentale concentrarsi sul riciclo e il recupero di metalli da dispositivi esausti. Le batterie usate rappresentano una risorsa da sfruttare meglio, limitando la pressione sulle riserve naturali.
L’esperimento condotto nel Pacifico serve a ricordare che la natura nei fondali oceanici è fragile e gestita da ritmi completamente diversi dai nostri. Un errore di calcolo o un’eccessiva pressione potrebbero trasformare una ricchezza mineraria in una catastrofe ambientale su larga scala. Perciò ogni progetto minerario va osservato con rigore scientifico e accompagnato da norme che ne limitino l’estensione e assicurino monitoraggi continui.
Il valore del tempo nei sistemi naturali
La lezione del 1979 invita a riflettere sul valore reale del tempo nei sistemi naturali e sulla responsabilità degli uomini nel non snaturare habitat che hanno impiegato secoli a formarsi. Anche oggi, a 44 anni di distanza, quella ferita sul fondo del Pacifico continua a raccontare una storia che non si può ignorare.