“Elisa” di Leonardo Di Costanzo è un film che racconta una storia intensa e fragile. La protagonista ha passato dieci anni in carcere per aver ucciso la sorella, senza ricordare il perché. Il film esplora come la mente possa mettere da parte ricordi troppo dolorosi, creando una barriera tra il presente e un passato traumatico. Lo psichiatra Vittorio Lingiardi aiuta a capire meglio cosa succede dentro di lei, soprattutto grazie all’incontro con un criminologo che prova a far riemergere quei ricordi sepolti.
Quando la mente si chiude: la dissociazione nei traumi di Elisa
La dissociazione, nel caso di Elisa, è un meccanismo con cui la mente “chiude a chiave” certi traumi, tenendoli lontani dalla coscienza. Lingiardi spiega che può diventare un disturbo complesso, dove alcune parti della persona smettono di comunicare tra loro. Nel film, Elisa sembra funzionare normalmente, ma dentro è bloccata da pezzi di sé e della sua memoria che non riesce più a raggiungere. Questa separazione non è sempre visibile e a volte si manifesta solo in certi momenti, ma nei casi più gravi porta a rimozioni profonde.
Il cammino di Elisa, dopo aver conosciuto il criminologo, è delicato: significa provare ad aprire quella “porta” mentale che custodisce una verità dolorosa. All’inizio peggiora, con un isolamento ancora più forte, ma riavvicinarsi a quei ricordi fa più male della reclusione stessa. È un dolore che resta, ma che le permette di affrontare il male dentro di sé e tentare di andare avanti, anche se il peso della colpa è enorme.
Dissociazione e vita di tutti i giorni: un meccanismo più diffuso di quanto pensiamo
Lingiardi ricorda che la dissociazione non riguarda solo casi estremi come quello di Elisa. Tutti, almeno una volta, usiamo questo meccanismo per sopportare momenti difficili o stressanti. È una sorta di “micro-dissociazione” che ci aiuta a scegliere quali parti di noi mostrare o nascondere.
Nei casi di abusi, soprattutto da bambini, la dissociazione diventa più profonda. Quando il corpo subisce violenze senza via d’uscita, la mente “scappa” per proteggersi dal dolore insopportabile. Questo meccanismo aiuta a sopravvivere in condizioni tremende, ma spesso crea una frattura duratura tra coscienza e memoria, condizionando tutta la vita.
La relazione che può aprire le porte chiuse del trauma
Nel film, la svolta arriva grazie al rapporto tra Elisa e il criminologo. Lingiardi sottolinea quanto sia fondamentale poter tornare a contatto con la propria storia, anche quando fa male, grazie all’ascolto sincero di un’altra persona. Affrontare un trauma significa confrontarsi con qualcuno che non giudica, che sostiene mentre emergono emozioni difficili.
Il film si basa su un libro, “Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro”, che spiega proprio questa necessità di un incontro umano e terapeutico per prendere coscienza e provare a elaborare il passato. Un lavoro complicato, pieno di resistenze, ma che può spezzare la prigione della dissociazione.
Difficile accettare l’umanità dietro un gesto estremo: la sfida della società
Un’altra voce importante nel film è quella di Valeria Golino, che interpreta la madre di una vittima. Il suo personaggio incarna la fatica di riconoscere l’umanità anche in chi ha commesso un gesto terribile. Lingiardi ricorda come sia comune la reazione di rigetto totale, di chi vorrebbe solo “buttare via la chiave”.
Nonostante tutto, il film invita a guardare anche al male più grande come parte della realtà umana. Seguendo il pensiero di Terenzio, “Sono un uomo, niente di ciò che è umano mi è estraneo”, anche il male va visto e raccontato. L’articolo 27 della Costituzione italiana parla di rieducazione del condannato, un segnale chiaro che di fronte all’orrore la società deve interrogarsi, senza chiudere gli occhi su ciò che è accaduto.
Elisa e il suo viaggio dentro di sé ci mostrano come la mente possa nascondere ma anche custodire il dolore legato al male. Raccontare queste storie è un dovere, per riflettere sul confine sottile tra memoria e oblio, tra giustizia e umanità.