La vicenda del pestaggio avvenuto nel carcere di reggio emilia il 3 aprile 2023 torna in tribunale con un appello della procura e della parte civile. La sentenza di primo grado, emessa il 17 febbraio 2025 dal gup silvia guareschi, aveva condannato dieci agenti della polizia penitenziaria, ma non aveva riconosciuto il reato di tortura né alcune lesioni contestate. Le parti coinvolte si oppongono ora alla qualificazione giuridica scelta dal giudice, chiedendo un nuovo esame dei fatti e delle accuse.
I fatti del pestaggio e le immagini che hanno fatto emergere la vicenda
Il 3 aprile 2023 un detenuto tunisino è stato vittima di un pestaggio all’interno del carcere di reggio emilia. Il pestaggio è stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza interne, che hanno fornito prove visive importanti. Nel video si vede il detenuto, con il volto coperto da una federa, picchiato da un gruppo di agenti nel corridoio, poi portato di peso in cella completamente denudato. Quelle immagini sono diventate un elemento chiave nelle indagini e nel processo che ne è seguito.
Ricostruzione della dinamica
I video hanno permesso di ricostruire la dinamica di quanto accaduto e hanno mostrato comportamenti violenti da parte degli agenti coinvolti. Più volte è emersa la difficoltà di inquadrare l’episodio nella cornice giuridica corretta, vista l’assenza di riconoscimento della tortura da parte del giudice. La documentazione filmata aveva quindi spinto la procura a esercitare un riesame più approfondito, via appello, per ridefinire le responsabilità.
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La sentenza di primo grado: accuse ridimensionate e pena ridotta
Il gup silvia guareschi, nel pronunciarsi sul caso, aveva condannato dieci agenti della polizia penitenziaria ma aveva escluso l’accusa più grave di tortura. Tra le motivazioni della sentenza c’è la convinzione che non si sia trattato di atti di violenza gratuita, motivo per cui non si sarebbe configurato il reato previsto dall’articolo specifico contro la tortura.
Come conseguenza, le condanne previste sono risultate più lievi. La pena massima inflitta è stata di due anni, lontana dalle richieste del pubblico ministero maria rita pantani, che aveva chiesto fino a cinque anni e otto mesi. La sentenza ha riconosciuto invece reati quali abuso di autorità contro detenuto in concorso e percosse. È stata inoltre contestata la falsità ideologica in relazione a tre relazioni di servizio ritenute non veritiere, su imputazioni rivolte ad alcuni agenti.
Questa decisione ha creato un divario tra pubblico ministero e giudice, portando la procura e la parte civile a presentare appello contro la scelta di ridimensionare il quadro accusatorio, soprattutto sul punto centrale della qualificazione giuridica.
Contestazioni dell’appello e qualificazione del reato
Procura di reggio emilia e avvocato della parte civile, l’avvocato luca sebastiani, hanno depositato i documenti per appellarsi alla sentenza emessa il 17 febbraio 2025. Contestano principalmente la mancata qualificazione del pestaggio come tortura e la non attribuzione del reato di lesioni. L’accusa sottolinea che le condotte degli agenti non possono essere considerate semplici abusi o percosse, ma forme di violenza sistematica e ingiustificata.
La questione principale è il riconoscimento giuridico: il gup aveva sostenuto che non si è trattato di violenza gratuita ma di comportamento legato al contesto detentivo. Tuttavia, il pubblico ministero e la parte civile contestano questa interpretazione, sostenendo che le immagini rivelano un uso della forza sproporzionato e ingiustificato, corrispondente alla fattispecie di tortura prevista dalla legge.
Processo di revisione
L’appello consentirà di riesaminare tutte le prove, compresi i filmati, e di rivedere le testimonianze. Altri aspetti da verificare sono le false dichiarazioni documentate nelle relazioni di servizio di alcuni agenti. L’intero procedimento si sposterà ora alla corte di appello, dove sarà deciso se cambiare la condanna o confermare il verdetto originario.
Il contesto e le implicazioni per la polizia penitenziaria italiana
Il caso di reggio emilia si inserisce in un contesto più ampio di attenzione verso il comportamento delle forze di polizia penitenziaria in italia. Crimini come la tortura in carcere vengono affrontati con diverso rigore nei vari tribunali, ma casi come questo sollevano dubbi sulle modalità di controllo e sulla trasparenza degli agenti.
La vicenda ha implicazioni non solo per gli imputati ma anche per la gestione delle carceri italiane. La richiesta di riconoscere la tortura punta a stabilire un precedente chiaro sulle responsabilità individuali. Nel frattempo la polizia penitenziaria resta sotto osservazione per eliminare episodi violenti e garantire il rispetto dei diritti umani dei detenuti.
Il processo di appello a reggio emilia sarà uno dei momenti in cui si metteranno a fuoco i limiti del sistema giudiziario italiano nel trattare casi di violenza in carcere, insieme a possibili interventi normativi o di controllo mirati a evitare che si ripetano fatti simili.