Maria Chindamo è al centro di una storia di violenza e resistenza, che coinvolge una comunità intera nella provincia di Vibo Valentia. Imprenditrice agricola, commercialista e madre di tre figli, la sua figura resta viva tra le terre di Limbadi, segnate dalla sua attività e dal tragico destino subito. La sua uccisione si lega a dinamiche di ’ndrangheta, conflitti familiari e un femminicidio che ha scosso il territorio, imprimendo un marchio profondo indicibile nella memoria collettiva.
La vita di maria chindamo e il contesto della sua attività agricola
Maria Chindamo gestiva una vasta azienda agricola di circa tre ettari in località Montalto, a Limbadi. La sua impresa produceva kiwi, agrumi e olivi, coltivati su terreni bagnati dal sole calabrese e contesi da decenni. Era una donna autonoma e di carattere, immersa nel lavoro e nella cura della famiglia, con tre figli, Vincenzino, Federica e Letizia che ne custodiscono il ricordo vivo. A quei campi, oltre al lavoro quotidiano, si intrecciavano tensioni legate al controllo dei terreni, tra interessi mafiosi e dinamiche di potere locale. La sua scelta di non cedere le terre alle pressioni criminali ha alimentato una spirale di violenza fino al suo brutale omicidio, un crimine che si fonde con la cultura patriarcale dominante nelle zone più colpite dalla ’ndrangheta.
Il delitto e il processo: tra ombre e lentezze giudiziarie
Il caso di Maria Chindamo riguarda un omicidio consumato con modalità crudeli. Secondo le indagini e le dichiarazioni di pentiti, Maria fu sequestrata davanti al cancello della sua azienda, uccisa con intenti multipli nel 2016. Il corpo fu fatto a pezzi e affidato ai maiali dell’azienda, poi i resti vennero sparsi sui terreni tramite una trinciatrice. Nonostante l’evidenza dei fatti, il procedimento giudiziario ha proceduto con estrema lentezza. Solo un testimone è stato ascoltato ufficialmente tra gli oltre cinquanta convocati. Salvatore Ascone, considerato vicino alla cosca Mancuso e unico imputato in stato di libertà, è accusato di avere manipolato la videosorveglianza per ostacolare le indagini e aver preso parte alla distruzione delle prove.
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Legami familiari e mafiosi nel delitto
La procura di Catanzaro ha indicato come mandante il padre dell’ex marito di Maria Chindamo, Nando Punturiero. L’uomo, incapace di accettare la fine del matrimonio e forse sottoposto a pressioni mafiose, si tolse la vita nel 2015. Un anno dopo, Maria fu uccisa, presumibilmente in una ritorsione per il suicidio di Punturiero. Nel 2017 morì anche Vincenzo Punturiero, padre di Nando. Tutto questo intreccio di eventi rappresenta una pagina oscura che lega famiglie, mafia e omicidi in una catena di vendette difficili da spezzare.
Come le terre di maria sono diventate simbolo di resistenza e memoria attiva
Oggi le terre di Maria Chindamo sono affidate al gruppo Goel, che gestisce beni confiscati alla ’ndrangheta, trasformandoli in luoghi di lavoro e giustizia sociale. Questa realtà sposa l’impegno per il recupero delle aree agricole calabresi, sottraendole alle mani della criminalità con azioni concrete di legalità. Ogni anno, dal luogo della sua scomparsa, arrivano famigliari, autorità civili e religiose, insieme a organizzazioni come Libera, Progetto Sud, Penelope Italia e molti altri soggetti impegnati contro le mafie e per i diritti delle donne. La data del 6 maggio è diventata simbolo. Un momento di incontro e dibattito che richiama la figura di Maria e lo scandalo della sua uccisione.
Iniziative di memoria e impegno civile
Questi raduni richiamano persone da tutta la Calabria, unite dal desiderio di trasformare il dolore in azione. Il sito dell’azienda è stato attrezzato con giardini e una scultura dell’artista Luigi Camarilla, illuminata grazie al contributo di Artemide e associazioni culturali locali. Si vuole creare un’installazione permanente che rappresenti un segno tangibile di memoria e di impegno civile. L’iniziativa, denominata “Illuminiamo le terre di Maria”, fa leva su un simbolismo forte contro l’oscurità della violenza mafiosa e per promuovere libertà e rispetto, temi strettamente connessi alla storia personale di Maria.
Il racconto di chi ha vissuto il dramma e le testimonianze dirette
I familiari di Maria, soprattutto suo fratello Vincenzo, portano avanti una testimonianza intensa e diretta di quanto accaduto. Vincenzo ricorda con dolore nitido il ritrovamento dell’auto di Maria: una Dacia Duster ancora accesa, con la radio al volume, e tracce di sangue tra i capelli. Questi dettagli segnano il punto di partenza di un dramma che ha travolto una famiglia e un’intera comunità.
Il ricordo degli eventi e il lavoro di chi si batte contro la criminalità consentono di tenere viva la vicenda di Maria in un contesto di lotta sociale. Gli studenti delle scuole superiori di Vibo Valentia collaborano alla sistemazione del giardino commemorativo, consolidando così un legame tra memoria e educazione civica. Questo coinvolgimento diretto di giovani e associazioni mira a costruire una resistenza culturale basata sulla verità e sulla giustizia, opponendosi alle intimidazioni del sistema mafioso ancora radicato in queste zone.